America Latina, scendi nel tuo inferno
I giovani e talentuosi fratelli D’Innocenzo tornano a far parlare di sé con il loro terzo lungometraggio, America Latina.
Dopo essere stato presentato in concorso alla 78ᵃ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, America Latina è approdato nelle sale il 13 gennaio.
Il film è un thriller psicologico dalle fosche tinte. Massimo è un dentista di Latina che vive in una villetta di periferia con la moglie e le due figlie, il perno della sua esistenza. Uomo schivo e placido, la sua unica “trasgressione” sembra essere quella di andare al bar con Simone, compagno di bevute. L’apparente calma piatta della sua vita viene brutalmente interrotta da un’agghiacciante scoperta in cantina.
La discesa fisica nel seminterrato, stereotipato covo di segreti e demoni, funge da turning point e si fa pretesto per l’inabissarsi del protagonista negli oscuri meandri della propria coscienza. Su ciascun livello (tematico, visivo, simbolico) il movimento discensionale è il ritornello dell’intera pellicola, che si configura come un vero e proprio viaggio verso l’inferno interiore di Massimo.
La cinepresa si “attacca” ai personaggi, li segue, li pungola e li deforma. L’occhio meccanico tenta di scandagliare i segreti insiti nell’occhio umano – tipicamente la “sede dell’anima” – attraverso i primissimi piani che, come una lente di ingrandimento, amplificano e sondano i dettagli, alla ricerca della verità più infima e nascosta dell’io.
I registi, come già accadeva ne La Terra dell’abbastanza e in Favolacce, tolgono il terreno da sotto i piedi agli spettatori. In un thriller la suspense e i colpi di scena sono d’obbligo, ma quello a cui si assiste in America Latina è un totale stravolgimento della prospettiva iniziale.
Realtà e illusione si fondono e si confondono, fino a diventare indistinguibili. Chi è davvero Massimo? Un uomo mite e banale, vittima di uno strano e inquietante scherzo del destino o, al contrario, un carnefice torbido e disturbato?
Uno sdoppiamento che ricorda quello di Dr Jekyll e Mr Hyde, in particolare nella dicotomia sopra/sotto che si viene a creare su un duplice livello: al piano superiore e, quindi, nella vita quotidiana, Massimo continua a mostrarsi come un padre e un marito amorevole; al piano di sotto, in quella che Márquez definirebbe “la vita segreta”, prendono corpo spaventosi fantasmi. Ma questo equilibrio precario è destinato ad infrangersi nel momento in cui il “sotto” risale con ferocia e inghiotte il “sopra”.
Massimo si scaglia contro l’amico, contro la famiglia, contro il padre che non l’ha mai voluto, nel disperato tentativo di scaricare le proprie colpe sugli altri. Colpe troppo pesanti da sopportare e, per questo motivo, rimosse dalla memoria, ma che verranno disvelate attraverso una lenta e sofferta presa di coscienza.
Il tema portante della doppiezza è reso concretamente da alcune scelte tecnico-visive: la palette cromatica che alterna i toni del blu (tranquillità, armonia, malinconia) con quelli del rosso (rabbia, passione, violenza e pazzia); la ricorrente presenza di superfici riflettenti, come specchi, acqua e vetrate, alla cui immagine viene posta in sovraimpressione quella di Massimo, “sdoppiato” tra la realtà tangibile e quella riflessa dalle proprie proiezioni mentali.
Salta all’occhio soprattutto la preponderanza dell’acqua. Questo leitmotiv si apre a diverse possibili interpretazioni. L’acqua come fonte di vita e di rigenerazione; l’acqua come mezzo di purificazione che cancella i ricordi e lava via i peccati (il fiume Lete docet); l’acqua intesa come liquido amniotico che simboleggia una figura materna (e in generale l’universo femminile) assente e mai nominata e, forse proprio per questo, ricostruita nell’immagine fittizia di una famiglia perfetta.
E ancora, l’acqua come oasi illusoria, dove l’uomo si rifugia per riempire i vuoti di un’esistenza solitaria e insoddisfacente.
Il tema del doppio si ritrova anche nel titolo, fuorviante come l’intero film. Perché America Latina? Forse proprio per rimarcare il concetto di scissione, attraverso l’opposizione tra due terre agli antipodi: da un lato, il sogno americano, l’abbondanza e la fertilità; dall’altro, la realtà asfissiante, incompiuta e ristagnante dei sobborghi del Basso Lazio.
Damiano e Fabio D’Innocenzo riproducono i meccanismi corrosivi della follia. La voce fuori campo del notiziario che annuncia l’ennesimo caso di “una persona che, seppur da tutti considerata pacifica e a modo, ha inspiegabilmente commesso un efferato crimine ”, congiunge ad anello l’inizio e la fine del film, rimarcando la verosimiglianza della storia portata sullo schermo.
È, allora, la banalità del male a sbigottire e a terrorizzare lo spettatore, la consapevolezza che la messa in scena abbia un acre retrogusto di realtà.
I fratelli D’Innocenzo stupiscono per la doverosa minuzia con la quale curano ciascun dettaglio, dimostrando di sapersela cavare egregiamente sia alla scrittura sia alla regia. I risultati raggiunti in pochissimi anni sbalordiscono ancor di più se si considera che non hanno mai ricevuto una formazione specifica in cinematografia.
Ciononostante, i loro film si inseriscono a testa alta nella storia del cinema, emergendo nel contesto italiano e agganciandosi a grandi predecessori. Hanno apertamente dichiarato di ispirarsi alla New Wave giapponese, a Bava, Argento, Fulci, Polanski… ma non solo, nella “mostrificazione” del protagonista, si possono riconoscere le inquietanti ombre di Nosferatu e del Dracula di Coppola, la schizofrenia di M. (Il mostro di Düsseldorf, Fritz Lang) e di Normann Bates (Psycho, Hitchcock).
Abbiamo fatto un elogio in pompa magna ai D’Innocenzo, però non dimentichiamo il grande merito di Elio Germano, il quale ha interpretato Massimo. La sua abilità camaleontica, lo rende uno dei migliori attori italiani in circolo, in grado di cucirsi addosso qualsiasi ruolo.
America Latina è un pugno allo stomaco, spiazzante e conturbante che attira e intrappola gli spettatori nel suo turbinio di emozioni contrastanti.
America Latina potrebbe non incontrare il gusto di tutti, tuttavia è indiscutibile che sia un prodotto ben fatto, uno di quei film che non si dimenticano facilmente una volta usciti dalla sala.
Giusy D’Elia