La guarigione intima ed emotiva di Drive my car
Vincitore del premio per la migliore sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes, Drive my car vince anche il golden globe per il miglior film internazionale.
Il regista giapponese Ryusuke Hamaguchi omaggia il grande scrittore Haruki Murakami, realizzando la trasposizione cinematografica di uno dei suoi racconti più sensazionali.
Ryūsuke Hamaguchi è un altro figlio geniale del grande cinema nipponico contemporaneo. Autentico, delicato, quasi teatrale, il regista colpisce direttamente la coscienza dello spettatore, la sua anima bistrattata e sempre alla ricerca di una cura.
Drive my car è un viaggio lungo di tre ore, lento, nelle viscere segrete dell’uomo, in cui la stessa lentezza è il motore della resa efficace della narrazione. Il film non ha bisogno di grandi rivelazioni; lo spettatore prepotentemente sente il peso dei sensi di colpa, del lutto, dell’amore. Yūsuke e Oto vivono il teatro, entrambi hanno bisogno di comunicare, hanno bisogno del potere delle parole.
Lo spettatore li osserva mentre fanno l’amore, sebbene sia una relazione complicata, che, spesso, induce al dolore. Questo tipo di rapporto si completa, o trova il suo elemento di distacco, se guardiamo l’ordine razionalmente sublime e limpido del loro appartamento. Parliamo di una coppia artistica, cristallina quando hanno a che fare con un mondo finto, creato da loro; un mondo che non permette, comunque, di entrare nell’animo misterioso e complesso di Oto.
È una donna sfuggente, un essere di fuga mentre lascia nell’ombra una parte del suo vissuto: qui non ci sono parole, riflettori, ma un sipario chiuso, un nascondere una parte di sé dietro le quinte. Inventa le sue migliori sceneggiature durante il sesso, quasi inconsciamente.
Quando Yūsuke lascerà la recitazione, si occuperà della regia di un particolare adattamento del classico teatrale russo Zio Vanja di Anton Čechov per un teatro di Hiroshima. Proprio in questo momento della narrazione, a seguito di un incidente, il volere della compagnia teatrale è quello di fornire un’autista a interpreti e registi. Così, subentra un’altra donna: la giovane e taciturna Misaki. Inaspettatamente si assiste ad un cambio di rotta, ad un rapporto profondo.
A differenza di altri registi asiatici, Ryūsuke Hamaguchi lascia poco spazio ai movimenti della cinepresa, focalizzandosi sulle parole, sui lunghi dialoghi fra i personaggi, quasi come se ci trovassimo proprio a leggere il racconto di Murakami.
L’autore teatrale e la giovane Misaki sono accumunati da un episodio traumatico, paralizzante, che lascia un vuoto corporale e emotivo nelle loro vite. Entrambi hanno bisogno di una lenta guarigione dell’anima per affrontare la vita. Molti personaggi dello scrittore giapponese risultano enigmatici, controversi, spinti da desideri occultati, volendoli distaccare dalla realtà tangibile della società nipponica.
Silenziosi affrontano le paure, i fraintendimenti e i dolori; come per dire che le persone non sono mai facili. In questa panoplia dell’animo e della psiche umana, c’è spazio anche per gli oggetti, o meglio per le automobili, le quali non sono semplicemente delle cose, un mezzo per spostarsi; esse hanno una valenza topica importante: sono il luogo del racconto, delle confessioni.
Un’automobile che nel suo muoversi aiuta i personaggi a smuovere qualcosa dentro di loro, portando alla rivelazione dei più sentiti turbamenti e dei sensi di colpa. Un momento catartico, in cui l’auto non diventa più un mero oggetto, un non luogo, ma è funzionale alla guarigione emotiva dell’uomo e della donna. Un luogo silenzioso, come l’animo, che in compagnia diventa un duetto di voci che aiutano aiuto.
Chiudere le porte dell’automobile, o ancor meglio, chiudere la porta del passato. In questo girovagare malinconico e seducente, Misaki si appropria benevolmente della vita di Yūsuke, guidando e portandolo in giro, ma, al tempo stesso si rivela una cura, motivo di condivisione. In fondo, non si è mai realmente soli.
Marianna Allocca
Copertina: via ponzaracconta
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