Liv nello specchio di Ingmar
Liv Ullman, attrice e regista norvegese, riceverà l’Oscar alla carriera a gennaio 2022, insieme a Samuel L. Jackson ed Elaine May.
È ricordata soprattutto come musa di Ingmar Bergman, uno dei maggiori registi della storia del cinema.
“Mi mostrò immagini di sua moglie e della montagna, ma anche due foto che mi affascinarono in modo particolare: Bibi Andersson era seduta presso una parete rosso scura. Accanto a lei sedeva una giovane attrice che le assomigliava e allo stesso tempo non le assomigliava affatto. La riconobbi […]. Era considerata una giovane promessa, aveva impersonato Giulietta e Margherita, si chiamava Liv Ullmann.”
È così che Ingmar Bergman, nel descrivere la genesi del film Persona (1966), introduce alla fine della sua autobiografia la figura di Liv, che divenne una costante nelle sue opere. Attraverso quelle due fotografie, l’attrice, allora venticinquenne, entrò inconsapevolmente a far parte della vita del regista svedese.
Con una carriera già avviata nel mondo del teatro, la Ullmann lavorò in dieci film di Bergman, che le valsero diversi riconoscimenti a livello internazionale. Non si trattò mai solo di un rapporto professionale: già sul set del primo film insieme, i due furono “travolti dalla passione”.
In Persona, così come nei film successivi, il regista mette al centro la straordinaria bravura dell’attrice: un ruolo sicuramente non facile, quello di Elisabeth Vogler, che ha una sola battuta lungo tutto il film e parla attraverso i silenzi. Saranno l’intensità dello sguardo, la capacità di far penetrare le emozioni in ogni angolo del suo corpo a renderla uno dei soggetti preferiti del regista:
“È affascinante: le sue labbra diventano più grandi, gli occhi più scuri, si trasforma totalmente in bramosia. C’è un frammento di profilo di Liv, qui, che è incomparabile. Si può vedere il suo viso trasformato in una sorta di maschera fredda e voluttuosa… Quando stavamo per girare le ho detto che doveva raccogliere tutto ciò che sentiva nelle labbra.”
Durante le riprese, nonostante il fallimento di diversi matrimoni e i debiti che doveva affrontare per sostenere tutti i divorzi e sei figli, Bergman decise di costruire per loro due una casa sull’isola di Fårö. Si trattò di un amore estremo, possessivo, tormentato. L’uno vedeva sé stesso nell’altro, creando una unione intensa e dolorosa. L’attrice, nella sua autobiografia Cambiare (1976), parla così del loro rapporto:
“Eravamo talmente simili. Quello che lui non sapeva di sé stesso cominciò a vederlo in me – come in uno specchio – nonostante io fossi una donna e molto più giovane e forse diversa da lui in modi che lui non conosceva. Vide in me la sua stessa vulnerabilità e la sua stessa rabbia.”
Dalla loro storia, durata cinque anni (e mai ufficializzata col matrimonio), nacque una bambina, Linn, che prese parte da giovanissima ad uno dei film più celebri del padre (Sinfonia d’autunno, 1978). Nonostante la fine del loro rapporto, il sodalizio artistico tra i due continuò per altri quarant’anni.
L’attrice ripercorre quel periodo nel documentario Liv & Ingmar (2012), dove lascia parlare i ricordi impressi nelle lettere del regista e rievocati sul set d’eccezione dell’isola di Fårö. Tra le tante che vengono lette, ci sono parole di dolorosa rassegnazione di lui, scritte diverso tempo dopo il loro distacco:
“Liv, ora riesco a capire che questa separazione era necessaria. Altrimenti ci saremmo dati quasi certamente fuoco a vicenda. Come avrei potuto sopportare di avere ancora qualche sorta di vita insieme? Tuttavia, io vivo in un dolore costante, fisico ed emotivo. Capisci, ti amo così tanto, mia piccola, adorata amica.”
L’intensità di quelle emozioni, per fortuna, non compromise mai il loro rapporto lavorativo. Liv sarà la maggiore interprete in importanti film, come La vergogna (1968), Sussurri e grida (1972), Scene da un matrimonio (1973). E Bergman l’avrebbe voluta protagonista anche di altre sue pellicole.
Ciò che rendeva unica questa attrice agli occhi di uno dei registi più visionari di tutti i tempi non risiedeva nel semplice “talento”. Il genio della Ullmann stava nel modo in cui ampliava il ruolo della musa, da fonte di nutrimento creativo a qualcosa di più vicino a uno sparring partner psicologico: non c’era in lei nessuna delle donne di Bergman, ma Bergman stesso. Si trattava del suo alter ego al femminile, così come Max von Sydow lo era al maschile. Lei ne ha riprodotto i gesti, le espressioni, lo sguardo, oltre che le angosce e le tensioni psicologiche.
Non era il loro amore ad essere messo in scena, come si potrebbe pensare notando quanto spazio le viene dato nelle inquadrature, anche in quelle scene che (apparentemente) non la riguardano. Non c’erano solo ammirazione, devozione per lei nella macchina da presa, che spesso e volentieri ne ripercorre i lineamenti: i lunghi primi piani sul volto di Liv non sono che indugi sul volto di Ingmar, che si è rivisto in lei come in uno specchio. E ha deciso di mettere in scena le sue emozioni, attraverso quella “famiglia” di attori che ci ha mostrato non solo le angosce e i tormenti del singolo, del genio Bergman, ma anche (e soprattutto) del fragile essere umano.
Elena Di Girolamo
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