Una storia che parla di te
Non so se capita a chi sta leggendo, ma certe volte mi sento talmente confusa da non riuscire minimamente a pensare.
Tutte le cose diventano incongruenti, i pensieri sono talmente tanti che si affastellano in quel guazzabuglio di materia grigia che è il mio cervello.
Certi giorni quasi penso di non avercelo, un cervello, di essere fatta unicamente di pensieri e di nodi da sciogliere.
Poi mi ricordo.
Devo per forza avere un cervello se sto pensando e allora, come se niente fosse, riprende il tram tram di frecce che senza sapere da dove vengono tirate, si lanciano a capofitto nelle cose.
Una rottura di scatole.
Gli esseri umani sono complessi, ma io supero il limite della decenza.
Ovviamente un’affermazione del genere è talmente narcisistica da valere come una generalista forma di riconoscimento universale: tutti ci sentiamo complessi oltre ogni limite di decenza.
Però ora stai leggendo, no?
Quello è, ci siamo io e te, tu e io, sotto questo ombrello di complessità.
Praticamente hai la tua età, lavori, studi, tenti di realizzarti, di “diventare qualcuno”, ma poi, ‘sto qualcuno chi è?
Mi immagino il signor Qualcuno che cammina per strada, tutto tronfio, con uno smoking da pinguino e tutto lo guardano e dicono: – Oh, quello è Qualcuno-.
Una soddisfazione immensa essere riconosciuti, sono io, quel Qualcuno famoso di cui si parla tanto e sono io che ho sorriso proprio a te, signor nessuno.
Chi ti ha detto di dover assomigliare a quel Qualcuno?
Sono i tuoi genitori che lo hanno fatto?
Ti senti poco perché hai subito una violenza?
Desideri lo smoking perché tuo fratello si è laureato in medicina e tu no?
Come funziona?
Quali sono i parametri del Signor Qualcuno?
Io, ad esempio, non ho studiato medicina né ho mai capito niente che avesse a che fare con i dati ISTAT delle professioni più remunerative in Italia. Non ho preso 110 e lode, non ho uno stipendio, ho paura del parto, mi viene l’ansia se devo rifiutarmi di fare qualcosa nonostante non sia obbligata e nelle orecchie ho avuto da sempre attestati di stima con un substrato di pietà. Una sorta di polemica d’intenti nei confronti di un modo di essere poco congeniale al contesto che c’è intorno.
Che sia una malattia?
Questo ci viene da pensare, spesso, e certe volte ci si tramuta proprio.
La depressione, ad esempio, l’esaurimento nervoso, l’ansia, gli attacchi di panico, le scelte e le aspettative e il mondo intorno intanto giragiragira e tu sei lì, fermo a cercare di capire perché quel tot di anni fa, quei maledetti dei tuoi genitori hanno deciso di metterti al mondo nonostante non l’avessi chiesto.
La vita non è un dono, la vita è un caso.
E anche se giragiragira e gira ancora, il Qualcuno tronfio anche cammina impettito verso, verso boh, continua e tu hai la bocca aperta e il cervello livido.
Cosa ti piace? Come vivi? Cosa desideri?
Sembra tutto così poco tangibile, sbagliato, sembra tutto così grande e tu minuscolo sotto le grasse risate di chi sembra avercela fatta, ancora tu, piccolo col tuo mondo di emozioni che nel marasma del tempo, in questo tempo, qui ed ora, non servono a renderti una parte del tutto.
Il tuo tempo non è ora, forse dovevi nascere tra mille anni, ma questa non è una giustificazione.
Il tuo tempo è ora.
Perché è ora che il caso ti ha reso vivo e soltanto ora puoi accendere il fiammifero che ti porta a respirare fuori dal sacco.
Che poi, come si accende un fiammifero?
Adesso siamo noi al tavolo del bar, parliamo, lo sai, io non so come posso aprire la bocca e riuscire a farlo, non ho ben capito cosa dico, ma se mi ascolto, sento che dico delle cose davvero belle.
Caspita sono bravo, so parlare, e sono presente, sono adeguato, come è possibile che io sia qui, a pensare tutto ciò e lì a parlare così bene.
Siamo due, forse dieci, ma a questo tavolo siamo soli e intorno a noi non c’è altro che rumore.
Stai leggendo ancora?
Io sì. Mi leggo, leggo dentro di me, con molta fatica e penso, penso già a dopo, non vorrei, ma ancora non so fare di meglio, mi sento in colpa.
Un drone vola sulle nostre teste al bar adagiato sui sanpietrini, una bolla ci contiene e noi siamo fermi a parlare o stare muti, non si distingue da qui, intorno c’è rumore, in testa c’è confusione, nel corpo…
Eppure, eppure, sono io al bar, sono io seduta davanti a me, sono io che mi osservo, sono io che osservo il drone e sono io che scrivo e racconto e penso, siamo dieci, forse più, eppure, nonostante tutto, nonostante quello che mi sembra essere il più totale dei caos, io ho questa sensazione: noi ci siamo. Esistiamo e possiamo amare, essere noi, essere noi stessi, noi altri, noi insieme, fuori dal rumore, possiamo e vogliamo tenerci stretta la possibilità di essere, perché cazzo, siamo vivi e il caos ci ha sputato fuori e anche se il parto fa impressione, noi lo abbiamo affrontato, siamo usciti e pure se i libri che si pubblicano sono tanti e molti sono brutti e troppi sono fuori e non si meritano di esserlo, tu sei stato protagonista, spettatore, autore, comparsa e anche selezionatore del tuo e questo non te lo leva nessuno, nemmeno quel cazzo di caos che hai in testa.
Benedetta De Nicola
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