E se i ritratti fossero tutti modelli immaginari?
Il ritratto ha qualcosa di misterioso. Osservo la sedia nella mia stanza. Lo schienale è rigido, silenziosamente immobile. Venature in mogano evocano il toppo originario.
Quella lucentezza lignea si staglia contro l’opacità della stanza. In alto, a sinistra, scaffali di libri perfettamente impilati, a destra cartoline incorniciate della chiesa di Sainte-Chapelle e del palazzo Donn’Anna di Napoli.
È una sedia. Solo una sedia. Ma non la vedo nella sua interezza. Doghe del sedile e braccioli occupano il campo visivo. Il pattino del dondolo è celato, questione di prospettiva.
Mi avvicino, pian piano. Ne studio i contorni imprecisi. Giro intorno.
Il dorso dello schienale è rivestito di pelle lucida. Ecco, la sezione che vedevo prima non c’è più. È sparita, ora riluce il pattino del dondolo mentre dei braccioli non c’è traccia. È ancora la stessa sedia?
La sedia è la sua alterità. Tutte le molteplici prospettive coesistono solo in potenza ma sono inafferrabili nello spazio fenomenico. Vedo il dorso o il suo aspetto frontale. Il pensiero solidifica tutto, le ricongiunge nell’unica forma possibile: una sedia tridimensionale, e nell’unico senso possibile: una particella linguistica.
Ma c’è un elemento sommerso.
Quella sedia è conglobata agli strati più antichi di noi stessi, i vari “io” che si sono succeduti e che giacciono in profondità quasi geologiche, schiacciati dal peso della nostra personalità attuale. Non proviamo nient’altro che tenerezza di seconda mano.
Non viviamo nella prigionia dell’io, anzi, esso rievoca quel senso tribale, protetto e custodito dall’oblio come in una teca. Ma cos’è che emerge?
La sedia è rotta, quindi inutile. L’agnizione la blandisce come tutti gli eventi insignificanti.
Emerge il minimo oggetto o parola da noi detta in un periodo della nostra vita. Il gesto più insignificante da noi compiuto era circondato, portava su di sé il riflesso di cose che dal punto di vista logico non avevano con esso nessun rapporto, che ne è stato separato dell’intelligenza stessa, che non sapeva che farsene di loro per le necessità del ragionamento.
I due “io” si ricongiungono e vibrano.
L’amplesso consumato aggrappato ai braccioli di una sedia qualsiasi, lo schienale serrato tra le mani per recitare la poesia del Natale quando eri piccolo e, infine, la tovaglia intrisa di sugo stesa sulla sedia al sole.
È in questa vertigine tra inutilità e opacità percettiva che si apre il senso estetico. La sedia che vedo nell’immediatezza vibra col senso dell’esistenza quale può fremere nella profondità di un animale e in un uomo delle caverne. I due “io” asserragliati nella sedia che osservo e in quella rammentata si toccano come due poli in un arco voltaico.
È proprio in quel momento che nella sedia nasce l’impressione di bellezza che è dal punto di vista umano universale: c’est l’état poétique.
Si snoda in un processo dualistico: l’impetuosa ascesa progressiva lungo le linee dei più elevati livelli espliciti di coscienza e la penetrazione simultanea per mezzo della forma, negli strati del più profondo pensiero sensoriale.
Questo processo si solidifica nell’arte del ritratto.
Pensateci bene. Non possiamo nemmeno vedere il retro del monitor del PC senza alzarci e girarci ma ci basta un ritratto per ritenere di poter cogliere l’essenza di un’espressione. E lo sapeva bene Tiziano Vecellio.
Si dice che persino l’imperatore Carlo V si sia chinato a raccogliere il pennello che egli aveva fatto cadere: la personificazione del potere regale che si piega al cospetto dell’esperienza poetica del reale.
Basta osservare il Giovane Inglese. Egli è misteriosamente vivo. Non vi è alterità, né tridimensionalità. Non vi è iper-realismo. Ci fissa con uno sguardo intenso e spirituale che riesce quasi impossibile credere che questi occhi trasognati non siano altro che un po’ di colore spalmato su tela.
Ma la parte dell’osservatore è fondamentale. Tendiamo a proiettare vita e espressione sull’immagine arrestata e ad aggiungere in base alla nostra esperienza ciò che non è presente. Tiziano era consapevole che il vincolo del movimento era assente ed è per questo che si concentrò a mobilitare la nostra proiezione.
La faccia immobile deve apparire come punto nodale di molti possibili movimenti espressivi. E allora la linea della bocca è sapientemente nascosta dalla peluria: un’esplosione di serietà e pacatezza. La punta del naso è opaca, nascosta dalla luce calda. Anche l’iride sinistro è asimmetrico.
Tutto è mobile nella sua fissità. E, ancora, se fissiamo il ritratto nella sua interezza, con una mano infilata nella veste e con l’altra che inforca i guanti in pelle, sembra che il giovane sia altero, pronto a ordinare un assedio. Ma se fissiamo solo il volto, la rigidità lascia spazio a una placida mestizia.
L’ambiguità è fondamentale nel ritratto. Non vogliamo vedere il modello nella situazione in cui effettivamente si trovava. Vogliamo riuscire a fare astrazione da questo ricordo e vederlo reagire a contesti reali più tipici.
Chi ci dice che il modello fosse occupatissimo all’epoca del ritratto per posare ore e ore? E se Tiziano si fosse avvicinato per riporre la mano dell’inglese proprio nella tasca ? O se il modello avesse ordinato a Tiziano di raccontare un episodio ilare durante il tratteggio? E se quell’espressione austera non fosse altro che il risultato di tutto questo?
Crediamo che l’espressione del ritratto sia permanente, sia l’essenza del soggetto. Eppure è un effetto transitorio che contempla sempre tre sguardi sovrapponibili: quello del pittore, del modello e dello spettatore.
La combinazione di tratti lievemente contraddittori, di uno sguardo serio con un’ombra di sorriso dà luogo a una sottile instabilità, un’espressione oscillante tra il severo e il pensoso che a un tempo intriga e affascina. È vero che il gioco non è senza rischi, e ciò forse spiega perché l’effetto si sia in tal misura congelato in una formula nei ritratti della società colta.
Tuttavia, è qui che si trova la congiunzione tra gli Homo Sapiens nelle caverne di Lascaux e il pittore del cinquecento: una cooperazione variabile tra uno stato di ispirazione e una semi-trance. Identificarsi con il modello, imitarne la voce, subire una mimesi psichica. Tutto ciò è una semi-possessione da parte della persona che dipinge. Mentre è in questo stato, il pittore può realizzare l’opera e noi possiamo chiudere gli occhi.
Ed è straordinario che tutti noi – non mentite a voi stessi – almeno una volta siamo stati “posseduti” , ci siamo inebriati o esaltati da un modello fisico incontrato per caso, tra le strade della nostra città.
Luigi Celardo
Vedi anche: E se fossimo solamente esausti ? Addolorati e stanchi come i personaggi di Beckett