Non troviamo un titolo, solo addio Sara
Immaginate di avere un sogno.
Immaginate di voler diventare qualcuno e sudare, studiare, faticare pur di vedere il vostro sogno realizzato.
Immaginate anche di raggiungerlo e di viverlo per soli venti giorni prima che ogni cosa vi venga portata via.
Immaginate. Ci riuscite?
Di fatica
Sara Viva Sorge aveva solo ventisei anni e una vita davanti.
Non sappiamo quali fossero i suoi hobby, quale fosse il suo cibo preferito, cosa amasse fare, che musica ascoltasse.
Sappiamo solo che era un’infermiera… per soli venti giorni. Sappiamo che aveva studiato per esserlo e che non poteva non essere felice quando aveva finalmente iniziato a lavorare in ospedale.
Sappiamo che in soli venti giorni era arrivata al limite massimo delle sue forze. Turni massacranti, orari disumani.
Ma cos’è più disumano? Gli orari di lavoro indecenti o chi li stabilisce senza nemmeno un briciolo di umanità ed empatia per chi è costretto a rispettarli senza poter nemmeno fiatare?
Fiatare. Le forze mancano pure per quello. Mi sento stanca morta. Sara si sentiva stanca morta e nemmeno un’ora dopo lo sarebbe stata davvero.
Di morte
La sua giovane vita interrotta a causa di un brusco incidente. Morta sul colpo dopo aver perso il controllo della sua auto e aver sbattuto contro un palo.
No, non è morta sul lavoro. È morta di lavoro e non è forse ugualmente grave e terrificante?
Quanti sogni aveva Sara? Come se l’era immaginata la sua vita in ospedale? Aveva mai pensato, anche solo per un misero istante, di poter morire a causa del lavoro per cui aveva tanto faticato e studiato?
Io non lo so cosa si aspettasse Sara. Non so cosa si aspetti una qualsiasi persona che dedica tutta se stessa pur di raggiungere un obiettivo e far avverare un sogno, o forse sì.
Forse lo so, ma non riesco a pensare alla morte. Non riesco ad accostare sogno e morte, lavoro dei sogni e morte.
Non dovrebbe esistere un tale accostamento. Non dovrebbe esserci un tale paradosso. Sognare una cosa e morire per – o a causa di? – essa.
Non doveva esserci nemmeno per Sara.
Di fatica e di morte. Questo è stato il lavoro per Sara. Non doveva essere quella la sensazione che si prova nel raggiungere un obiettivo. Non doveva essere quello il giorno o il modo in cui porre la parola “fine” alla sua giovane vita.
C’è dolore, c’è rabbia, frustrazione, sconforto. C’è la consapevolezza dell’ingiustizia e, pure, la consapevolezza che le cose difficilmente cambieranno.
Quanti morti sul – o di – lavoro ci sono? Troppi.
Quante volte le cose sono davvero cambiate e migliorate? Troppo poche.
Quante storie come questa ancora ascolteremo? Della risposta ho paura.
Ho paura di una società in cui lavorare diventa una sfida contro la morte.Ho paura di una società in cui un lavoratore deve pregare ogni giorno di poter tornare a casa sano e salvo.
Ho paura di una società in cui i suoi parenti devono ricevere quelle maledette telefonate che distruggeranno per sempre le loro vite.
Ho paura di una società che ha paura ma non fa niente per non averne più.
Ho paura della paura che ci rende sempre meno empatici, giorno dopo giorno.
Ho paura di immaginare come si sia potuta sentire Sara pochi istanti prima di schiantarsi contro quel palo e morire. E se per caso se lo aspettasse di star andando incontro alla propria fine?
E se, per un istante, abbia persino pensato che quel destino fosse addirittura meglio delle condizioni in cui era costretta a lavorare?
Sono stanca morta.
Una frase che si dice così spesso e con così tanta leggerezza, ormai. Fa venire i brividi pensare alla fatalità di questa frase leggera come una piuma e pesante come un macigno.
Sì, Sara era stanca morta. Lo era per davvero, nulla di metaforico. Lo era letteralmente e no, non è normale. Non può essere normale.
Non deve esserlo.
Anna Illiano
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