Viaggio nell’itinerario psicoanalitico della Divina Commedia
Solo a partire dal XX secolo si è iniziato a parlare di psicoanalisi in senso stretto.
Ma pare che qualche illustre pensatore abbia giocato in anticipo adottando principi riconducibili a quella che poi sarebbe divenuta una disciplina scientifica a tutti gli effetti.
La palma di inventor generis è assegnata a Sigmund Freud: neurologo, psicoanalista e filosofo austriaco di origine ebrea che identificò nell’inconscio la sede degli istinti, dei desideri e dei conflitti irrisolti.
Per accedere ai meandri segreti della psiche – da cui secondo lui deriverebbero le malattie nervose – elaborò il metodo psicoanalitico, presentato ne L’interpretazione dei sogni (1899) che segnò lo spartiacque tra mondo di prima e mondo di dopo.
Questa invenzione determinò una palingenesi antropologica e culturale che sconvolse ogni presunto dogma precedentemente acquisito. Il mondo della cultura non poté che recepire con stupore e interesse un simile progresso, accogliendolo nella propria produzione. Furono infatti a migliaia le opere artistiche e i testi letterari influenzati dalle metodologie e dagli assunti psicoanalitici.
Nell’arte pensiamo alla corrente subespressionistica del Surrealismo, completamente basata sulla libertà totale dell’io che attraverso libere associazioni, sfuggendo al dominio della ragione, si lascia andare ad un sommerso mondo soggettivo, interiore ed onirico.
Nel mondo della letteratura invece, senza spingerci lontano dai nostri confini nazionali, emblematiche sono la pseudopsicoanalisi perpetrata dal dottor S. in La coscienza di Zeno e la scomposizione dell’io attorno cui ruota l’intera opera di Luigi Pirandello.
Un altro triestino, Umberto Saba, fece poi esperienza diretta della terapia psicoanalitica e la traslò in qualche modo nella sua poetica («O mio cuore dal nascere in due scisso, quante pene durai per uno farne! Quante rose a nascondere un abisso»).
Se queste influenze posteriori sul cosmo della carta stampata non stupiscono, più curiose sono le indagini condotte da alcuni critici riguardo operazioni inconsciamente psicoanalitiche messe in atto anche da scrittori e autori di gran lunga precedenti alla pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni.
In Italia il paradigma più noto di lettura psicoanalitica applicato a testi letterari e drammaturgici è il volume Per una teoria freudiana della letteratura realizzato da Francesco Orlando. Sulla medesima falsariga si colloca il professor Carlo di Lieto, attento a rintracciare questo tipo di influsso in narrazioni e biografie di personaggi come Torquato Tasso, Miguel de Cervantes, Louis Stevenson.
Forse il passo più ambizioso è stato compiuto dal Dottor Mario Pigazzini, psicoterapista, collaboratore dell’Università dell’Insubria nonché amante spassionato di Dante. Pigazzini ha deciso di intraprendere un innovativo viaggio attraverso una delle opere più lette e commentate dall’umanità: La Divina Commedia. Finora solo una piccola parte del suo lungo lavoro di analisi è stato pubblicato, in un primo volume intitolato simbolicamente Freud va all’inferno.
Già nell’incipit della Comedìa, Pigazzini intravede un’ispirazione psicoanalitica: Dante sa di essere in una fase di difficoltà della sua esistenza, logorato dalle ingiustizie e dai traumi subiti. Diciannove anni di esilio dalla propria città e dalla propria famiglia non devono essere stati una passeggiata. Il sommo si ritrova così nella posizione di molti di noi: costretto a chiedere aiuto. Aiuto a qualcuno che sia più saggio, più esperto di lui, che possa consigliargli un percorso di espiazione e di purificazione per ritrovare un equilibrio.
Ecco allora comparire il suo maestro e modello e, in un’ottica ultramoderna, il suo psicoterapeuta: Virgilio. Sarà lui a prenderlo per mano – letteralmente in alcuni passi – per aiutarlo ad affrontare un viaggio allegorico che potrebbe indicare anche un cammino di cura e di guarigione.
Sappiamo che non è stato per nulla facile: durante il suo tragitto il nostro Dante-paziente più volte non si è sentito all’altezza di affrontare le sue paure e i suoi peccati e più volte ha vacillato; in questi casi il suo dottore è intervenuto a soccorrerlo mentre cadeva «come corpo morto cade».
Nel canto XXVI dell’Inferno Dante, come se fosse incapace di raccontarci alcune delle memorie più terribili del viaggio – forse a seguito di un’intensa attività volontaria di rimozione – afferma di aver visto «cose che la mente si rifiuta di raccontare». Egli però può superare i suoi problemi solo immergendosi a piene mani in essi e riemergendone integro, anche e soprattutto grazie al supporto della sua guida spirituale.
Nel corso del canto V, è la stessa Francesca a rivolgersi a Virgilio con l’appellativo di «dottore»: da intendere sia nel senso di persona altamente edotta sia capace di prendersi cura, assistere e accudire.
La riappacificazione con sé stesso per Dante, come per un paziente in cura, sarà raggiungibile solo dopo un lungo percorso tra le fiamme ardenti dell’Inferno. Le fiamme simbolizzerebbero il momento di scavo interiore alla ricerca dei propri demoni, al quale segue il racconto esorcizzante dei propri dolori (presenti nelle numerose profezie riguardo un futuro preannunciato nella narrazione ma corrispondente al passato del poeta).
Solo dopo gli anni trascorsi all’Inferno, (non dimentichiamoci che la scrittura dell’opera sembra accompagnare Dante dal 1307 al 1321, mentre il tempo dell’avventura letteraria conta appena 7 giorni) Dante può finalmente ritenersi “guarito” e degno di raggiungere la meta agognata del suo itinerario.
Inoltre, Pigazzini paragona la punizione assegnata ai traditori nell’estremità dell’imbuto infernale alla situazione dei pazienti affetti da disturbi psichici. Così come i primi sono immersi e immobilizzati nel ghiaccio, così alcuni soggetti psicoanalizzati, come conseguenza di un forte trauma, possono entrare in una condizione di frozen pathway, ossia una paralizzante incapacità di affrontare il dolore che porta a rimanerne intrappolati.
Quello riportato non è l’unico tentativo di interpretazione psicoanalitica della Commedia. Un altro esempio è quello del giovane Dottor Stefano Lalla che ritiene la selva oscura una metafora della zona d’ombra della psiche, cioè dell’inconscio.
I personaggi incontrati nei nove cerchi infernali sarebbero proiezioni del discostamento del nostro Es dall’etica e dalla morale. Insomma, il poema sarebbe un dialogo interiore dell’autore con la propria ombra.
E ancora, in campo artistico, il famoso pittore Salvador Dalí illustrò il poema in cento xilografie a colori (impiegò 9 anni tra il 1957 e il 1964), adeguando le sue tecniche surrealiste deformanti e le sue iconografie tipiche all’atmosfera ascensionale delle tre cantiche.
Per quanto queste letture siano suggestive, vanno prese con le pinze. È lapalissiano dire che Dante non poteva conoscere e applicare, almeno consciamente, teorie sorte circa settecento anni dopo di lui.
Eppure non si può negare l’interessante apporto di ricerche di questo genere che possono aiutarci a rivisitare in una chiave diversa e più umana le grandi penne della nostra letteratura.
Sì, persino nomi del calibro di Durante Alighieri, il quale – secondo quest’ottica, ci avrebbe insegnato che, per quanto spaventosamente oscuri e impenetrabili, dobbiamo affrontare l’abisso dei nostri mostri e risalire a “riveder le stelle”.
Giusy D’Elia
Illustrazione di Sonia Giampaolo