Fai in modo che i tuoi silenzi siano belli come le tue parole
La nostra mente acquisisce conoscenza in maniera analitica e mediata (attraverso parole, concetti, ricordi e così via); l’intuizione, invece, affiora nel silenzio, e ne afferra la verità e l’insieme gestaltico; un risultato non da poco.
L’uva da tavola del Sud Barese era la frutta che mangiavamo ogni giorno con Antonio, quella che con meticolosa calma lui spellava e tagliava e svuotava dai semi per darla a Carla. Un piccolo rito che si compiva tra loro come un segreto, un quotidiano ricamo d’amore.
Una persona non comune, una ragazza tormentata. Tormentata? Sì, Carla mi sembrava tormentata. Non ho mai compreso la sua fede, c’erano cose di lei che non penetravo. Cose che non mi ha mai detto. Cose che non le ho mai chiesto. Beveva parecchio, passava ore a leggere, faceva il bagno da sola.
La verità è che ero dipendente dalla loro bellezza, e questo, non è qualcosa da cui ti puoi semplicemente allontanare. Avrei potuto benissimo dirglielo io, che non sono mica così; cresciuta in mezzo agli adulti, ho presto imparato a capire le loro tristezze, una roba che avevo visto negli altri ma che a me non era ancora mai successa. Non ho precisamente memoria del momento esatto, ma un giorno ho compreso di essere diventata grande.
Alcune, tra le persone della mia vita, quelle importanti, le ho incontrate una prima volta pensando che il giorno dopo non mi sarei nemmeno ricordata di loro. Non ho mai pensato per me una vita normale. Sono sempre stata fuori dagli schemi, fin da piccola. Ci provavo tutte le sere: cercavo di fare il vuoto più assoluto, provando a scacciare le idee una dopo l’altra, prima ancora che diventassero parole, sterminandole alla radice, annullandole all’origine. Ma m’imbattevo sempre nello stesso problema. Pensare di smettere di pensare è ancora pensare e contro questo non si può fare niente.
Mi piaceva pensare di contribuire alla conversazione ascoltando in maniera attiva ed empatica, invece che aspettare il mio turno e semplicemente per parlare. Stare lì ad ascoltarli è stato qualcosa di costruttivo. Ho imparato a riconoscere il valore del silenzio, il mio.
È che, quello che dico, io lo conosco già. Quel tempo, ho fatto del silenzio la mia arma potente, ne ho afferrato l’importanza in maniera raccolta e concentrata distaccandomi da quelli che sono gli stimoli e i rumori.
Ci sono riuscita.
Ho passato quei giorni in modo confuso, sono stati molto strani, sono iniziati piuttosto male e finiti in una maniera dolcissima. Quattro giorni in cui, insieme a Carla, mi sono ricordata che rumore faccia il silenzio intorno quando le teste rimbombano e non si fermano mai. Quattro giorni in cui abbiamo ripreso insieme il ritmo ovattato della solitudine, che sa essere al tempo stesso terribilmente dolce e pure velenoso.
Nail quella sera mi ha ricordato che lanciarsi quando si è tutti rotti è pur sempre un modo per ripartire. Come il silenzio prima del boato.
Vi auguro il suono del silenzio per tutto il giorno e di più.
Niente, più niente al mondo.
Francesca Scotto di Carlo
Leggi anche: Edward Hopper: un silenzio terribilmente assordante