Annibale Ruccello e la sua Mamma al Piccolo Bellini
Antonella Morea mette in scena al Piccolo Bellini “Mamma. Piccole tragedie minimali”, opera di Annibale Ruccello interpretata da un Rino di Martino di straordinaria bravura.
È martedì, vado a teatro con un’amica. C’è Mamma di Annibale Ruccello al Piccolo Bellini. Ok, bello Ruccello! Vado a teatro e resto incantata davanti alle 4 mamme plasmate dalla penna di Ruccello e rese carne, ossa e voce da Rino Di Martino.
Ho scelto per Rino Di Martino questi quattro monologhi dove mamme malefiche raccontano ancora fiabe e che poi via via, nei vari episodi, si trasformano in figure irrimediabilmente corrotte dai mass-media – spiega la regista Antonella Morea – Una folla di donne attorniate da ragazzini che si chiamano Morgan, Deborah, Samanta, nelle cui conversazioni si confondono messaggi personali, echi televisivi, slogan di rotocalchi; dove la pubblicità si sovrappone alle confidenze, le telenovelas alla sfera privata e gli inni liturgici alle canzonette di Sanremo.
Le fiabe, Maria di Carmelo, Mal di denti e La telefonata. Quattro brevi atti unici, quattro racconti, quattro quadri in cui le donne sono protagoniste di storie più o meno vicine nel tempo, più o meno legate al presente. Donne che sono figlie, sorelle, zie, nipoti ma soprattutto madri.
Mamma è uno sguardo pittoresco eppure estremamente realistico sulla dimensione della maternità. Ma le madri proposte da Ruccello poco o nulla hanno di materno, di accogliente. Sono madri egoiste, madri gelide, madri oppressive quelle di Mamma.
Madri prese da sé, dai loro desideri, da un mondo, quello loro interiore, inquinato dai media, dai giornali, dal cinema e dallo spettacolo.
Un clima fiabesco, sognante e svagato però rende queste figure malefiche più accettabili: lo spettatore assiste benevolo e comprensivo all’umana fallibilità di queste madri, ai loro sentimenti vili, bassi eppure umanamente comprensibili.
Vengono portati in scena deliri verbali fondati sulla contaminazione e sull’alterazione del linguaggio – continua la Morea – La perdita di rituali propiziatori e liberatori usati nel mondo contadino come protezione e rivelazione dell’inconscio. Ma soprattutto la perdita dell’identità collettiva dovuta all’ingresso dei media.
Il lavoro che Di Martino fa sulla lingua è di mirabile finezza: l’italiano viene plasmato, modificato, masticato fino a diventare una lingua altra, una lingua che ci racconta le intenzioni, gli stati d’animo, il passato, la formazione, lo status sociale dei personaggi che lo parlano. Il napoletano è quello antico, fiabesco, a tratti baroccheggiante come quello di Basile, che rende ogni opera di Ruccello qualcosa di estremamente poetico e musicale al contempo.
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Valentina Siano