Belfast: l’amarcord di Kenneth Branagh
Belfast è da annoverare fra i film migliori di Kenneth Branagh.
Vincitore del premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale, il film è un viaggio a ritroso nella vita infantile del regista, da cui emerge un racconto intimo ed emozionante.
“Abbiamo tutti una storia da raccontare, ma quello che ci rende uno diverso dall’altro non è come finisce questa storia, piuttosto da dove è cominciata. Non importa quanto vai lontano. Non dimenticherai mai da dove arrivi”.
Belfast è un vero è proprio amarcord, a metà tra un’opera autobiografica e una pellicola tipicamente di stampo neorealista. Un tuffo nel passato dello regista, in cui il racconto trapela dai ricordi e dal punto di vista di un bambino, Buddy, intelligente e sagace. La pellicola in bianco e nero – espediente della memoria e scelta estetica– si contrappone al cinema a colori, o al teatro, rappresentati nel film. Un meta cinema che ci aiuta a comprendere il sogno di un bambino, ma persino il motivo dell’unione, il luogo dove la famiglia ama riunirsi.
“Ogni sera, prima di mettermi a dormire, quando dico le preghiere chiedo a Dio se riesce a fare in modo che quando mi risveglio la mattina io sia il miglior calciatore del mondo! E poi gli chiedo anche se da grande posso sposare Catherine. Anche se lei ama Ronnie Boyd; potrà vederlo lo stesso ma sposerà me. Ecco che cosa voglio io”.
Quel nucleo familiare costretto a fare i conti con la rivolta fra cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord, nel lontano 1969. La famigerata guerra intestina nota ai più come The Troubles, che afflisse l’intera regione dalla metà degli anni Sessanta fino ai Novanta: buona parte di quei disordini continuano ancora oggi sui binari di una lotta etnico-nazionalista, combattuta dagli Unionisti Protestanti e dai Nazionalisti Cattolici.
Fra tumulti e barricate, c’è la vita, la sopravvivenza tra i piedi che battono sull’asfalto a suon di musica e la speranza di un nuovo inizio. La sua famiglia è di religione protestante, quindi, teoricamente, sono al sicuro dai raid anticattolici, ma il padre pensa che portare tutti a Londra possa offrire un futuro meno rischioso.
Gli scontri, infatti, provocarono numerose vittime civili e la conseguente, nonché ingente, diaspora. Tuttavia, si evince quell’ideale dell’ostrica – passatemi il paragone – in stile irlandese insito nella vita, ormai vissuta, dei nonni paterni: restare dove tutti si conoscono, dove ci si sente al sicuro, nonostante le tensioni sociali; dove il luogo ha plasmato la persona e poi l’intera popolazione.
Lasciare Belfast vuol dire scappare dalla storia, salvarsi, ma anche abbandonare la vecchia vita. Buddy, a soli nove anni, sa che esiste un momento in cui non bisogna voltarsi indietro per poter afferrare un mondo nuovo, mentre le vicende si districano fra le note del brano Days like this di Van Morrison: “when you ring out the changes of how everything is well my mama told me there’ll be days like this”.
Il regista ha mostrato al suo pubblico l’apologia del senso di appartenenza del popolo irlandese, del valore della famiglia, dell’importanza della memoria. Tutto raccontato con semplicità ed eleganza, attraverso attimi di autentica quotidianità, tenera, mentre il sangue ricopre le strade e accoglie i vetri rotti della vita consumata dalla fede.
L’ingenuità e il candore di un bambino irlandese sono funzionali alla narrazione, messi in contrapposizione all’assurdità e alla drammaticità degli scontri civili. Attraverso gli occhi dell’infanzia ci affacciamo al mondo degli adulti. Entriamo in un vero e proprio film di formazione, intervallato da attimi di pura commedia, in cui si lascia spazio anche ad un’elegia romantica rivolta al futuro, sebbene le radici del presente e del passato siano ben radicate nella terra che li ha generati.
Marianna Allocca
In copertina un fotogramma dal trailer ufficiale di Belfast
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