Questioni di coscienza – Ne parliamo il 5 aprile
Il 5 aprile 2020, a circa un mese dal lockdown stabilito a causa della pandemia da Coronavirus, l’ONU ha promosso la Prima Giornata Internazionale delle Coscienze.
Lo sapevi? Addirittura si è sentita la necessità di concordare una data comune per svegliare le nostre menti sopite e far riflettere, ogni tanto.
Coscienza, poi, che parola ambigua. Per indicare cosa, alla fine?
La conoscenza, la capacità di valutare e giudicare, c’è scritto e, ancora, la valutazione morale del proprio agire.
Sembra complicato? Lo è.
La decisione era stata presa il 25 luglio dell’anno precedente, prima che la pandemia ci imponesse tempo libero e ragioni in più con cui tormentare i nostri silenzi.
Lo scopo era quello di dedicare simbolicamente una giornata alla nostra vita, al modo in cui ci approcciamo a essa e a come la sfruttiamo per, da una parte, essere soddisfatti di noi stessi e, dall’altra, contribuire a rendere ciò che ci circonda migliore, o quanto meno, essere capaci e volenterosi di prendercene cura.
Il centro sembrava essere la consapevolezza, che l’avvento della pandemia ha reso inevitabile, per molti, di vivere in una realtà in cui non siamo padroni di nulla, se non di poche e probabilmente effimere decisioni.
Bisognava comprendere di essere uomini, sì, ma anche testimoni, di un mondo in cui la violenza e la sofferenza non si nascondono, ma bussano alla porta di casa continuamente, anche più volte al giorno. E noi spesso ci nascondiamo, rifiutandoci di aprire o, nei momenti di coraggio, al massimo riusciamo ad avvicinarci in punta di piedi alla soglia di casa e sbirciamo dallo spioncino.
L’invito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è semplice: partire da sé stessi per prendere consapevolezza del buono che c’è e da qui affrontare, con serietà e impegno, un percorso nuovo, diverso e positivo.
La pandemia dovrebbe aver aiutato, ed è d’obbligo sottolineare il “dovrebbe”, a guardare al futuro con un occhio diverso, perché le cose “non saranno mai più come prima”. Probabilmente è vero, ma saranno migliori?
Questa è la domanda che l’ONU rivolge a noi ogni giorno, e che noi siamo invitati a rivolgere a noi stessi, almeno una volta l’anno, almeno in questo 5 aprile.
Guardiamoci allo specchio e cerchiamo di essere sinceri con le uniche persone che ci conoscono e ci giudicano più e peggio degli altri: noi stessi. Ci piace ciò che vediamo?
Ritagliare qualche minuto del nostro tempo per esaminare quello che, con mille sfaccettature diverse, chiamiamo coscienza, e ripartire, adeguando le nostre azioni e i nostri rapporti a ciò che davvero ha importanza, per noi e per gli altri, in questo momento sembra essere necessario.
Nessuno può garantire che la scelta fatta, piccola che sia, sarà la migliore, la più ponderata, la meno azzardata o discutibile, ma l’importante è che sia dettata della consapevolezza, dalla volontà di approfondire quotidianamente il rapporto con sé stessi, di essere sereni, più di ieri e meno del giorno che verrà.
Prendiamoci qualche minuto per capirci, tentare di comprenderci, rispondere alle nostre domande e chiederci spiegazione. Cominciamo a cambiare noi stessi, un passo per volta, per cambiare il resto, ciò che non ci piace, ciò che è brutto, è fatto male, è sempre uguale, ciò che non va.
Impariamo a vivere con noi, e mentre cerchiamo di farlo, impariamo anche a vivere con gli altri. Ascoltiamoci per saper ascoltare e accogliere, la normalità, la banalità, la diversità, la novità, l’umanità, quella che troppo spesso ci manca.
Ci si salva insieme, ma bisogna imparare a farsi leggeri, a lasciare a terra le zavorre, a non appesantirsi con convinzioni che possono cambiare, e a non gravare su chi è intorno a noi e magari sta solo cercando di liberarsi dei propri pesi, delle proprie vacillanti certezze.
L’ONU ci vuole responsabili, dinamici, attenti, per questo coscienti, capaci di scuoterci senza adagiarci su consapevolezze che possono venire meno, un tassello alla volta, oppure crollare tutte insieme, pensando che “quel che è fatto è fatto” o “non si poteva fare di più”.
E quante volte invece di “fatto” non c’era ancora nulla.
Stefania Malerba
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