Bang Bang baby: un pastiche in pieno stile anni ‘80
La nuova serie di Amazon Prime Video è ciò che mancava al panorama seriale della produzione televisiva italiana.
Costituita da dieci episodi, di cui i primi cinque presenti sulla piattaforma dal mese di aprile e gli altri da maggio, rappresenta una pura meraviglia, figlia della nostra produzione peninsulare.
Bang Bang Baby, ideata da Andrea Di Stefano e diretta da Margherita Ferri, Giuseppe Bonito e Michele Alhaique, non è altro che un crime drama ambientato nell’Italia del 1986, nella fattispecie, a Milano.
La narrazione – tipicamente in stile retrò – mostra al fruitore la criminalità calabrese senza filtri, senza indugiare; spietata e, al tempo stesso, ridicola e buffa, come se fosse la protagonista di uno spettacolo circense.
Le vicende vengono raccontate attraverso un forte taglio cinematografico e una fotografia completamente pop, con una contrapposizione dei colori complementari: colori freddi e caldi, a tratti, monocromatici. L’uso dei campi totali, tipico del linguaggio cinematografico, è alternato a quello dei primi piani.
Oltre all’aspetto visivo ed estetico, che colpisce lo spettatore fin dall’inizio, notevole è il tocco autoriale; infatti, la storia si dispiega fra personaggi caratterizzati magistralmente, talvolta, così enfatizzati da risultare teatrali, grotteschi, quasi irreali.
La protagonista, Alice, è una sedicenne introversa e solitaria che vive con la madre Gabriella. La giovane donna è stata traumatizzata dall’omicidio del padre, avvenuta davanti ai suoi occhi, quando era appena una bambina.
Appassionata dell’immaginario americano, delle serie tv statunitensi, delle pubblicità incalzanti di quegli anni e i videogiochi diventati iconici, Alice diventa parte integrante della cultura pop, al tal punto, che quest’ultima tende a dominare il suo inconscio e il suo subconscio.
All’improvviso, l’ordinario mondo di Alice cade in frantumi quando scopre, per puro caso, che suo padre non è morto davvero. Si ricongiunge con la famiglia paterna, dove vige il matriarcato della nonna Lina, personaggio interpretato dalla talentuosa Dora Romano.
La serie risulta essere una vera e propria narrazione di formazione, sicuramente atipica, ma dai tratti picareschi. Orfana di padre e figlia di una madre, la quale crede fortemente nel progresso e nei cambiamenti che il femminismo stava apportando in quegli anni.
Alice scopre di essere molto simile al padre; scopre un coraggio che non credeva di avere, prendendo consapevolezza delle proprie capacità. Tuttavia, è un’antieroina come tutti i personaggi della serie: intrappolati nel loro passato, nel sangue versato, in stratagemmi per sopravvivere negli inferi della mafia e nella “morte che non fa ridere”. Il rapporto fra padre e figlia è tossico, disfunzionale.
Santo è bugiardo, manipolatore, codardo, gioca con i sentimenti delle donne della sua vita: Alice e Giuseppina. Grazie all’uso degli anacronismi, o meglio, dei flashback Alice ricostruisce il suo passato, noi conosciamo i suoi ricordi infantili, che vanno ad intrecciarsi con il suo presente.
Alice e la nonna Lina sono le colonne portanti della famiglia, le donne carismatiche al centro della storia. La prima cerca di salvare il padre dal suo destino funesto; la seconda segue gli affari di famiglia, protegge il suo nucleo familiare con astuzia, ma anche attraverso metodi coercitivi, come la tortura del maiale e del miele contro i suoi nemici.
Il personaggio di Lina emerge nel corso delle puntate, pian piano; quello di Alice viene in fretta decostruito a favore di una personalità atipica, un’adolescente che entra in un mondo che non credeva le appartenesse. Un mondo troppo lontano per una ragazzina alle prese con la vita adolescenziale.
Parliamo di una commedia nera, grottesca, ispirata al cinema internazionale.
Generi cinematografici che creano un vero e proprio pastiche all’italiana nei nostalgici anni ’80. Fra personaggi fumettistici e spietati, fra realtà e immaginazione, vi sono parti in cui emerge la mise en abyme delle immagini rappresentate nello spazio-mente di Alice, che risultano quasi un sogno, surreali. Un racconto nel racconto.
Dalla Calabria a Milano, la mafia serpeggia fra le reti familiari e politiche, senza morale, senza conferire tratti umani ai personaggi più vendicativi. Essa si insinua nel sangue, nell’atto di fede pattuito con Alice, mentre una gigante big babol soffoca i suoi sentimenti.
Anche dal punto di vista linguistico, il dialetto calabrese plasma i personaggi della serie; forse è la lingua stessa l’unica nota realistica e connotativa dei costumi e della cultura di quel popolo, mentre tutto viene esasperato, dando spazio ad un umorismo caro alla nostra cultura umanistica. Andrea Di Stefano non avrebbe potuto fare di meglio.
Marianna Allocca
In copertina locandina ufficiale della serie
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