Dal punto di vista dei migranti
Ci siamo mai chiesti cosa si prova a lasciare la propria terra alla ricerca di un futuro migliore?
Se la risposta è no, allora vi conviene continuare a leggere.
Questa è la storia di un lungo viaggio, (forse) con un lieto fine.
Era una calda mattina in Libia, il sole scottava e l’umidità era elevata.
Arrivarono alcune persone da molto lontano, forse dal Sudan. Parlavano tra loro affermando di essere venuti da soli, per guerra e carestia nel proprio paese, oppure venduti da trafficanti di esseri umani. Sebbene il viaggio già fatto era stato lungo e tortuoso, li aspettava un altro tanto grande e difficile.
Con la speranza nel cuore, sogni nel cassetto e qualche oggetto portato con sé, famiglie e persone iniziarono ad intraprendere la strada verso un mondo nuovo, lontano dalle barbarie della loro terra.
In Libia però molti trascorsero mesi in centri di detenzione, torturati e sfruttati da uomini spietati in cambio di denaro. Pestaggi e uccisioni erano all’ordine del giorno, in quelli che ormai diventavano veri e propri lager.
Quelle persone, le stesse arrivate con tante speranze, iniziarono a gettare la spugna. La stanchezza assalì i loro corpi, ma non potevano fermarsi. Giovani, madri, bambini, padri, tutti racchiusi in un sogno comune: fuggire per salvarsi.
Dopo la lunga detenzione, lo stesso gruppo proveniente da lontano, ormai dimezzato, raggiunse finalmente il mare.
Iniziò così l’ultima parte del viaggio, la più dura di tutte. Ciò che gli si presentava davanti era un’enorme distesa d’acqua, agitata e tortuosa, ma non c’era alternativa.
Le madri stringevano a sé i propri figli e tanti orfani, che, in quella esperienza, avevano perso la famiglia. Il barcone, carico di circa 300 persone, si muoveva a fatica lasciando per sempre le coste libiche.
Durante il percorso si sentivano pianti, urla, preghiere e forse anche canzoni, perché in quel clima di sofferenza c’era spazio per un po’ di allegria.
Nella notte però il gommone iniziò ad imbarcare acqua. Il mare, con le sue gelide onde impazzite, lo inondò. In un attimo, tutti catapultati nel Mediterraneo, molti senza salvagente, cercando di aggrapparsi a qualche frammento di barca.
Dopo diverso tempo, finalmente giunse la Guardia Costiera, ma lo scenario che si presentò ai loro occhi era devastante. Centinaia di corpi galleggianti sovrastavano il mare, alcuni tirati su nella speranza di trovarli vivi. Per molti non c’era nulla da fare.
Arrivati al porto, quello stesso gruppo ormai dimezzato toccò terra e riuscì ad arrivare “salvo” in un altro continente. Spaesati ed esausti raggiunsero il posto indicato dalla Guardia Costiera, verso alcuni capannoni che offrivano acqua e cibo.
Con il terrore ancora negli occhi, segni di violenze e dolore per i lutti subiti, pian piano i migranti cercarono di ricostruire i pezzi della propria vita per metterli insieme in questo nuovo paese.
Il viaggio termina in Italia, terra di speranza raggiunta a fatica, dove poter ricominciare liberi da schiavitù e violenze.
“Quando vengono compiute violenze, ci sono sempre modalità analoghe.
Ma c’è una cosa che, a differenza di altri, trovo identica ad allora: il distacco, il disinteresse collettivo verso persone che, pur con storie diverse, decidono di mettere pochi oggetti in valigia, lasciare le proprie case e lasciarsi alle spalle la vita intera, la propria città, pur sapendo di rischiare la morte, di farla rischiare ai figli piccoli.”
– Liliana Segre
Martina Maiorano
Fonte copertina Fanpage.it
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