Il mercato non è nero, è solo razzista
Quante volte ci capita, durante una conversazione, di usare espressioni comuni senza chiederci cosa possono implicare?
Sarebbe impossibile investigare sull’origine di tutti i termini che usiamo da quando ci svegliamo la mattina e cerchiamo a fatica la moka e la forza per andare a lavorare fino a sera.
Lo lasciamo fare agli appassionati del linguaggio, a quegli occhialuti un po’ nerd che a volte ci piace snobbare e di cui, altre volte, ci piace invidiare la costanza, un po’ per gioco e un po’ per interesse.
E ogni giorno pronunciamo parole, in varie lingue, senza chiederci cosa ci sia dietro o perché si dica proprio in quella maniera. È normale, è comune, non si può stare dietro a tutto.
Eppure essere uomini e donne significa essere consapevoli, cercare risposte e non accontentarsi della prima che si ottiene, o di una risposta parziale.
Lo hanno fatto le generazioni precedenti, sicuramente con meno mezzi a disposizione, e non dovremmo essere noi a farci intimidire da qualche enciclopedia o dalle pubblicità che spuntano quando apriamo pagine online.
Ed essere uomini e donne coscienti significa che tutti abbiamo il dovere di capire come il linguaggio sia uno dei principali tramiti della diffusione di idee, anche non belle, anche poco condivisibili, anche e non poco razziste.
Le parole pesano, lo dicono tutti, e certe parole pesano più di altre.
“Mercato” da sola non è una parola che pesa. Non pesano le urla dei venditori, né i colori della frutta e della verdura di stagione, non pesano i pesci buttati sul banco con tutte le reti, non pesa la sveglia presto e il calore del giorno. Non pesano il sudore e la fatica.
“Nero” è una parola che pesa, pesa tanto e pesa da sola. Pesa quando ci si riferisce a una persona di colore, pesa quando la si usa per identificare, indicare, parlare, bene o male che sia. Pesa quando è pelle. Pesa quando è anche solo un colore, pesa sui vestiti della gente quando batte il sole, pesa quando è inchiostro, sulla carta, o sul corpo.
“Mercato” non pesa da sola, eppure può pesare. Perché può diventare scuro, buio, nascosto, dimenticato, può diventare un posto in cui ci si perde, senza riuscire a ritrovarsi. Può diventare questo e molto più, quando è “nero”.
E perché dovrebbe? È solo un’espressione.
E come questa ce ne sono tante altre. Nella lingua inglese, e non solo, il colore nero è spesso vincolato con l’estorsione (blackmail), la cattiva fama (black mark, black sheep), il rifiuto e l’esclusione rispetto a un gruppo (blackball), l’allontamento o esilio (blacklist) e più di tutte, l’illegalità, come nel caso citato poco fa (black market).
Il simbolismo associato ai colori nero e bianco non è storia nuova. L’idea di bianco come superiorità, sempre in accezione positiva, e di nero come inferiorità, con ogni sfaccettatura negativa possibile, fa parte della nostra cultura.
Eppure io su “mercato nero” non ci avevo riflettuto. Io non lo sapevo, anche se non era poi così difficile da dedurre, ma a volte semplicemente non ci facciamo caso, impegnati come siamo a parlare, pensando sempre ad altro.
Ma fermarsi significa anche questo: trovarsi un giorno con una domanda in più, parlare con un amico, più informato, più attento, fare caso a ciò che ci era sfuggito e decidere che forse qualche minuto del nostro tempo possiamo provare a usarlo meglio, o diversamente.
Ed è duro vedere come, per quanto si possa essere convinti, spesso ci si ritrova a cadere negli stessi soliti errori, nel linguaggio, nel pensiero, nel pregiudizio.
E ancor più duro è capire che non sono le espressioni ad essere pesanti, scure, a far paura, a ferire, ma è la nostra disattenzione, mista a un po’ di superficialità, probabilmente di noncuranza, dovuta al fatto di essere nati dalla parte giusta, senza il fardello di un colore che chiunque si sentirà autorizzato a commentare.
È vero, non possiamo chiederci la spiegazione di tutto ciò che diciamo. Ed è difficile prendersi la responsabilità di ogni parola che si pronuncia, caricandola di tutti i significati che potrebbe avere e delle accezioni che a qualcuno potrebbero non piacere.
È faticoso, sì, ma può essere la strada giusta. E, chi lo sa, un passo alla volta si può cominciare a percorrerla.
Stefania Malerba
Copertina: Pixabay
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