Le avvincenti peripezie della lingua italiana – Dalle origini a Dante
Come e quando nasce la lingua italiana?
La lingua italiana è il frutto di un plurisecolare e graduale processo di trasformazione linguistica che rende difficile individuare una data di nascita ufficiale.
Si possono però individuare alcune tappe identificative che scandiscono le fasi salienti della sua formazione.
Attraverso queste, proviamo dunque a riassumere la storia della lingua italiana.
L’italiano rientra nel gruppo delle lingue romanze o neolatine, così chiamate perché originatesi dal latino.
L’Impero romano non solo aveva esteso il suo dominio politico all’intera area euro-mediterranea, ma anche i suoi costumi e il suo bagaglio culturale, tra cui la lingua latina.
Tuttavia il latino parlato non era omogeneo su tutto il territorio imperiale, poiché era contaminato: da un lato, dal contatto con le lingue preesistenti all’arrivo dei romani (sostrato); dall’altro, dagli usi linguistici impropri della plebe.
Esisteva quindi un divario tra il latino classico usato nei contesti ufficiali e negli scritti letterari e il latino parlato dal popolo nella quotidianità.
La linea divisoria tra le due varietà linguistiche si fece via via più fitta con l’invasione delle popolazioni germaniche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente (476 d.C.). In questo contesto, infatti, il latino entrò in contatto con nuove lingue (adstrato) che ne cambiarono ulteriormente i connotati. Nacquero così i volgari romanzi.
Ad ogni modo, il latino continuò a mantenere il proprio primato come lingua universale della cultura e della scrittura almeno fino all’VIII secolo d.C., quando il volgare cominciò a fare le sue prime comparse in scritti pratici di modesta levatura (atti guridici, documenti amministrativi, transazioni commerciali, graffiti, filastrocche).
Tra quelle che sono state identificate come le più antiche testimonianze scritte dell’italiano (l’Indovinello Veronese, l’Iscrizione di San Clemente, l’Iscrizione della catacomba di Commodilla, i Placiti Cassinesi), il titolo di «atto di nascita della lingua» è stato attribuito al Placito Capuano.
Perché proprio questa scelta? Perché si tratta del primo documento ufficiale che è dotato di una datazione precisa e in cui il redattore si mostra consapevole di avvalersi di due lingue distinte e separate.
Il Placito Capuano è un verbale notarile su pergamena del 960 d.C. redatto dal giudice Arechisi. Il Placito (documento che nel Medioevo esprimeva il parere di un giudice su una disputa) riguarda una causa giudiziaria volta a stabilire chi, tra l’abbazia di Montecassino e un latifondista privato (Rodelgrimo), fosse il legittimo proprietario dei confini di certe terre.
Spoiler: la causa viene vinta dagli abati che rivendicano il diritto di usucapione, ovvero la modalità di acquisizione di un territorio mediante il possesso continuo e prolungato negli anni.
Il documento riporta tre testimonianze a favore dell’abbazia, trascritte in una formula che presenta evidenti forme volgari, creando in tal modo un netto contrasto con il linguaggio notarile in latino.
Tale scelta di trascrizione rappresenta una grande novità rispetto alla prassi: probabilmente è giustificata dalla volontà di sottolineare la genuinità della testimonianza ed è un segno evidente del fatto che il volgare si stava formalizzando. La formula si ripete identica per quattro volte e si ripresenta anche negli altri Placiti Cassinesi (anche chiamati Campani).
“Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” (So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha avute in possesso il monastero benedettino di Montecassino).
Ciononostante, affinché il volgare acquistasse dignità pari a quella del latino, era necessario che lo si impiegasse abitualmente, soprattutto nei testi letterari.
Questa pratica fu inaugurata e promossa nel XIII secolo dalla “Scuola siciliana”, la cerchia di poeti attivi nella corte di Federico II di Svevia che compose i propri componimenti poetici in un volgare siciliano “raffinato”, arricchito da termini latini, provenzali e neologismi.
Con la fine della dinastia Sveva, l’eredità dei poeti siciliani fu raccolta dai poeti siculo-toscani, in seguito dagli stilnovisti, i quali ampliarono le tematiche dei predecessori, sperimentando nuove forme metriche e “toscanizzando” la forma linguistica.
Il volgare letterario sviluppatosi in Toscana cominciava a diffondersi anche in altre aree geografiche della penisola e in altri generi (ad esempio nella letteratura moraleggiante e religiosa), “colorandosi” continuamente di nuove sfumature linguistiche.
Ma la supremazia del latino era dura a morire. Pensiamo a Petrarca che liquidò come “nugae” (cose di poco conto) i suoi Rerum vulgarium fragmenta, il Canzoniere che lo avrebbe poi eternato nella memoria dei posteri. Il buon Francesco, al contrario, sarebbe stato pronto a scommettere tutto sulle opere latine.
Vi siete mai chiesti perché Dante Alighieri è considerato “il padre della lingua italiana”? Ebbene, Dante è stato il primo teorico del volgare italiano, il primo a capirne le potenzialità e a tentare di sistematizzarlo.
Dante ha espresso le sue idee sul volgare in due trattati: il Convivio e il De Vulgari eloquentia.
Nel primo, definì la neonata lingua un “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino per raggiungere un pubblico più ampio (coloro che “non conoscendo l’antica lingua sono costretti nelle tenebre dell’ignoranza”). Proprio per questa ragione scelse di scrivere il trattato in fiorentino.
Nel secondo (scritto in latino), Dante compì una lucida analisi linguistica risalendo fino alle origini del linguaggio e passando in rassegna le lingue europee e i vari idiomi locali diffusi nei comuni italiani. Lo scopo della sua operazione era quello di individuare tra i volgari esistenti il più adatto a divenire lingua letteraria. Il De Vulgari eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare.
Celebre è l’elenco dei requisiti che tale idioma doveva possedere secondo Dante:
- “illustre”, nel senso che doveva dare “lustro” a chi lo impiegava;
- “cardinale”, perché doveva fungere da cardine per tutte le altre parlate;
- “aulico”, cioè degno di essere usato dinanzi a un sovrano;
- “curiale”, ossia utilizzabile come strumento di comunicazione nelle corti.
Dante giunse alla conclusione che nessuno dei volgari allora esistenti rispondesse a queste caratteristiche. Neanche il toscano e il fiorentino, che furono anzi colpiti dalle critiche più dure. Tuttavia, le opere di alcuni autori potevano fungere da modello per “creare” il volgare illustre (la produzione dei poeti siciliani, quella di Giacomo da Lentini, di Guido delle Colonne, Guido Guinizelli, Cino da Pistoia, Lapo Gianni).
Con il plurilinguismo della Divina Commedia, Dante stesso fornì un esempio da seguire; tant’è vero che i linguisti contemporanei hanno sottolineato quanto la sua lingua sia vicina a quella da noi oggi parlata:
«Quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale è già costituito al 60%. La Commedia lo fa proprio, lo integra e col suo sigillo lo trasmette nei secoli fino a noi. Alla fine del Trecento il vocabolario fondamentale italiano è configurato e completo al 90%» (De Mauro, 1999).
Il Sommo Poeta fece da apripista al volgarizzamento della letteratura (es. il Decameron di Boccaccio) e alle successive riflessioni sul canone linguistico che sfociarono nella “questione della lingua”.
Con la questione della lingua ci addentriamo in un terreno impervio. Vi abbiamo già fornito molte informazioni, perciò saremo magnanimi. Continueremo a torturarvi con la lunga e intricata storia della lingua italiana nel prossimo “episodio”!
Giusy D’Elia
Illustrazione di Sonia Giampaolo
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