Le avvincenti peripezie della lingua italiana – Dalla Questione della lingua ai Promessi Sposi
Siete pronti a scoprire come va a finire la storia della lingua italiana?
Eravamo rimasti a Dante, ora andiamo avanti lungo la linea temporale.
Grazie alla concomitanza di una serie di fattori favorevoli, il Quattrocento fu un secolo decisivo per la rivalutazione del volgare. Innanzitutto si sviluppò l’umanesimo volgare: un movimento culturale volto a dare risonanza e prestigio alle Tre Corone.
Uno dei principali esponenti fu Leon Battista Alberti, il quale scrisse la prima grammatica dell’italiano – la Grammatichetta – per dimostrare che la nuova lingua era regolata da una struttura grammaticale ordinata al pari del latino.
L’opera di valorizzazione del volgare fu portata avanti dalla corte medicea. Lorenzo de’ Medici, che voleva imporre il “principato” di Firenze su tutti i fronti (anche su quello linguistico), promosse la produzione letteraria in lingua toscana all’interno del suo cenacolo intellettuale. Fece persino allestire un’antologia di rime, la Raccolta aragonese, che raccoglieva i componimenti scritti dai poeti toscani (dai predanteschi fino ai contemporanei).
Un altro elemento catalizzatore fu la mobilità cortigiana, che portò alla creazione di una lingua di koinè di base toscana atta a facilitare gli scambi tra le corti.
E ancora, la letteratura religiosa si aprì alla varietà toscana per rendersi fruibile a un pubblico più ampio.
In ultimo non poteva mancare l’invenzione della stampa, che regolarizzò i canoni di scrittura uniformandoli alla norma bembiana.
Eccoci giunti al momento clou: l’avvio della “questione della lingua”.
L’espressione “questione della lingua” sta ad indicare una disputa sorta nel XVI secolo in ambito letterario, per stabilire quale fosse il migliore modello linguistico da adottare nella produzione culturale italiana.
Si svilupparono diverse correnti di pensiero, di cui tre principali:
- La corrente “fiorentina”. Nel 1525 Pietro Bembo pubblicò un trattato in forma dialogica, diviso in tre libri: Le Prose della volgar lingua.
In esso, il letterato veneto rivendicava la dignità del volgare e proponeva di costruire un modello linguistico fondato sugli autori fiorentini trecenteschi.
Precisamente: si doveva seguire Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (nello stile alto della cornice del Decameron). Il plurilinguismo della Commedia dantesca, invece, veniva scartato, perché giudicato troppo “popolare”.
All’interno di questo indirizzo c’era poi chi suggeriva una rettifica al paradigma bembiano, affiancando al fiorentino letterario quello parlato dell’uso vivo e contemporaneo. Tra questi ricordiamo Machiavelli (Discorso intorno alla nostra lingua) e Varchi (l’Hercolano).
- La corrente “cortigiana”. I fautori di questa posizione spingevano a favore della lingua impiegata nelle corti, prediligendo il volgare della corte romana che, essendo un melting pot di genti, aveva incoraggiato la formazione spontanea di una lingua di conversazione sovraregionale di base toscana. Alla teoria arcaizzante di Bembo, i “cortigiani” contrapponevano l’uso linguistico vivo.
La summa di queste teorie è racchiusa nel Cortegiano (1528) di Baldassare Castiglione.
- La corrente “italiana”. Giovan Giorgio Trissino fondò la propria idea di volgare sulla scia di quanto espresso nel De vulgari eloquentia di Dante. L’opera dantesca, rimasta fino ad allora inedita, fu tradotta e rimessa in circolo dallo stesso Trissino, che la diede alle stampe nel 1529.
Nello stesso anno egli pubblicò il Castellano, un dialogo in cui avanzava la proposta di costruire a tavolino il “volgare illustre”, mescolando i migliori elementi linguistici tratti dalle varie corti italiane.
A suo dire, il Petrarca aveva compiuto una simile operazione selezionando vocaboli dai vari idiomi locali e, pertanto, la sua lingua era classificabile come “italiana” e non come fiorentina.
La soluzione di Bembo riscosse enorme successo, sia tra i coevi sia tra i posteri; questo perché non faceva altro che ratificare una tendenza già largamente diffusa nella prassi.
Nel 1500 il volgare acquisì finalmente piena dignità, surclassando il ruolo egemonico del latino nella cultura. Fu pubblicato un cospicuo numero di opere letterarie, grammatiche e vocabolari ispirati al modello bembiano. Citiamo a tal proposito il primo vocabolario della neonata lingua: Le tre fontane (1526) di messer Niccolò Liburnio.
Nel secolo successivo fu portato avanti il lavoro di consolidamento e di regolarizzazione del volgare. In questa impresa si cimentò soprattutto l’Accademia della Crusca, un’associazione privata fiorentina che nel tempo è diventata un punto di riferimento nazionale in fatto di norma linguistica.
Nel 1612 uscì la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, seguita da altre 5 edizioni ampliate e aggiornate, l’ultima delle quali fu stampata fino al 1923, interrompendosi alla lettera “O”.
Comunque sia, non si pensi che con la vittoria della proposta bembiana fossero magicamente scomparsi i problemi. C’erano ancora dei nodi da sciogliere.
In primis, non tutti avevano accettato di buon grado l’autoritarismo fiorentino; tra i più strenui oppositori ricordiamo gli intellettuali della rivista Caffè, che scrissero il pamphlet polemico Rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca (1764).
In secundis, restava lo scoglio più grande da superare: diffondere la nuova lingua nel parlato quotidiano dell’intera penisola. L’italiano era, infatti, una lingua d’élite.
Nel 1800 la questione della lingua si spostò nelle scuole e si legò alla questione sociale.
Nel 1861 si raggiunse l’Unità d’Italia, ma come disse Massimo D’Azeglio “fatta l’Italia bisognava fare gli italiani”.
Occorreva costruire un’identità nazionale e, per farlo, conveniva partire proprio dalla lingua.
Il ministro dell’istruzione Emilio Broglio istituì una commissione presieduta da Alessandro Manzoni al fine di trovare “ i provvedimenti e i modi” più efficaci al raggiungimento dell’unificazione linguistica.
Da questo incarico nacque la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (1868), un testo in cui Manzoni sosteneva il primato del fiorentino colto dell’uso vivo, di contro all’artificioso fiorentino letterario del Trecento.
Per quanto riguarda i mezzi di diffusione, Manzoni riteneva che fosse necessario muoversi in una triplice direzione:
- Allestire un vocabolario normativo fondato sull’uso vivo fiorentino;
- Impiegare nelle scuole maestri toscani o in alternativa offrire un periodo di formazione in Toscana agli insegnanti e agli studenti di altre regioni;
- Adeguare alla nuova norma la veste linguistica dei libri scolastici e dei testi prodotti dalla pubblica amministrazione.
Manzoni affrontò a più riprese il problema della lingua, raggiungendo l’apice con la quarantana dei Promessi Sposi.
Prima di arrivare alla versione definitiva del suo romanzo (1840-42), Manzoni realizzò altre due edizioni, entrambe scartate in quanto ritenute insoddisfacenti da un punto di vista linguistico.
Infatti: da un lato, il Fermo e Lucia del 1821 era «un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine»; dall’altro, I Promessi Sposi del 1825- 1827 (la ventisettana) era scritta in una lingua tosco-milanese di stampo libresco.
Con la «risciacquatura in Arno» compiuta nella quarantana, Manzoni fornì un nuovo cruciale paradigma linguistico, incentrato sull’uso parlato e non più su quello scritto.
Le basi teoriche erano state poste, non restava che concretizzarle… e mica facile! Ci vide lungo il linguista Graziadio Isaia Ascoli quando affermò che l’unificazione linguistica sarebbe stata raggiunta solo grazie all’intensificarsi dello scambio culturale, per cause naturali ed extralinguistiche.
Effettivamente, fu nel corso del Novecento, secolo di profondi mutamenti socio-culturali (pensiamo all’emigrazione e alla comparsa dei mass media), che la popolazione italiana divenne (quasi) completamente italofona.
Questa è la mirabolante storia – ridotta all’osso – della nostra lingua italiana. La storia di una lingua che ha dovuto superare diversi ostacoli e cambi di rotta prima di divenire idioma nazionale e assumere la forma che oggi noi tutti conosciamo e usiamo.
Ma non finisce qui: l’italiano continua a mutare, incessantemente.
Giusy D’Elia
Illustrazione di Sonia Giampaolo
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