Nick Cave porta in concerto la maledizione che affligge il rapporto tra padri e figli
Il re del “duende” la cui vita personale ha subito innumerevoli scossoni, sembra svuotato. Eppure conserva la sua capacità mediatica di trasmettere emozioni sia sul disco che dal vivo.
Si è parlato con insistenza di Nick Cave in tempi recenti, non per la musica ma per la tragedia che lo ha investito: la perdita del figlio Jethro di soli 31 anni.
Il ragazzo, nato dalla relazione con la modella Beau Lazenby, era stato pochi giorni prima scagionato di prigione. Era stato arrestato per aver aggredito la madre e gli era stata diagnosticata la schizofrenia.
Sette anni prima, Cave aveva perso il figlio quattordicenne Arthur, precipitato da una scogliera dopo aver assunto LSD.
Nella vita del musicista australiano, così come la sua musica, riecheggia un senso di morte e follia. I due terrificanti stati sono sublimati in modo da trasformarsi in bellezza.
Cave come un alchimista trasforma le sue turbe mentali in arte e lo fa alla grande. Il suo ultimo album Ghosteen risale al 2019.
Già nel titolo percepiamo il tormento dello spettro adolescente che ha certamente perseguitato l’autore aggirandosi nei suoi ricordi.
La musica e le parole servono a scacciare il dolore, non negandolo, ma affondando nelle sue profondità per agire sulla radice e tramutarlo in qualcosa di prezioso.
Ma come nella peggiore delle maledizioni, se miracolosamente fosse stato possibile liberarsi del supplizio attraverso l’espressione artistica, l’anatema torna a presentarsi in forma nuova e il terribile drappo del lutto si è steso ancora su un erede di Nick Cave.
Morte e follia, da immaginari e temuti che erano nelle opere giovanili di Cave, dove si muovevano come timori, senza diventare mai più palpabili che in un racconto, si sono concretizzati in realtà terrificanti e al contempo ineluttabili.
Espressione artistica e ispirazione del musicista non possono certo rimanere gli stessi del passato, così come le sue performance.
Sul palco Cave sembra essersi trasformato lui stesso in fantasma, come a unirsi all’orda dei suoi persecutori.
Io assisto al suo show a Taranto, il regno del sole e del mare dove l’atmosfera estiva ricrea uno sfondo anomalo al diafano musicista sessantaquattrenne. Il contrasto mi suscita emozioni particolari amplificando lo straniamento e di conseguenza l’allontanamento dalla dimensione della realtà.
Nel live sono stata catapultata in un oscuro universo Cave, angosciante, rabbioso e affascinante allo stesso tempo.
Dimensione di un uomo non più giovane, che ha sperimentato gli eccessi e che ha dovuto farci i conti per poter sopravvivere. Un uomo che ha avuto la sagacia di trasformare i propri supplizi in merce di scambio.
Le sue sofferenze sono state trasformate in monete d’oro tramutando lo sventurato ragazzo australiano in un uomo ricco.
Viene da chiedersi a che prezzo.
Bianco ed elegante, non perde ispirazione e la capacità di trasmettere emozioni e un senso placido di dolore e rabbia.
Il suo non è un dolore soffocato bensì composto e anche scatenato.
Quella compostezza che rivela assoluta familiarità con la sofferenza. Il vecchio dolore di un ragazzo che ha perso il padre e ora quello di un padre che ha perso i propri figli.
In effetti il giovane Cave si dice un sopravvissuto alla dipendenza dall’eroina grazie ai Narcotici Anonimi e aveva a sua volta un rapporto così complicato con il padre da aver iniziato a fare uso dell’oppiaceo proprio a seguito della morte del genitore.
Il padre di Cave morì in un incidente autostradale nel 1978, mentre il figlio diciottenne veniva rilasciato di prigione su cauzione, per un furto d’auto. Il rapporto col genitore viene rielaborato dal musicista attraverso la lettura della Bibbia e la ricerca del sacro. Cave rivela nel 1996 alla BBC:
“C’è in me il sangue di mio padre, ed è da lui che ho ereditato, tra l’altro, l’amore per la letteratura, per la parola. E proprio come Cristo è stato per suo padre, io sono una generazione più avanti, e – se vuoi perdonarmi, papà – in termini evolutivi, una versione avanzata”.
Se è vera la teoria di Freud secondo cui un uomo è capace di crescere solo quando è metaforicamente all’altezza di uccidere il proprio padre, viene da chiedersi se in qualche modo l’incidente del padre di Cave abbia impedito questa possibilità, relegandolo in un limbo in cui è costretto ad invecchiare, senza poter superare quella prova. Limbo in cui il cantante è diventato padre a sua volta ma restando imprigionato in una maledizione.
Padri, figli e maledizioni, un motivo che ritorna tanto nella vita di Cave quanto nelle generazioni di ogni tempo ed ogni dove, stimolando interrogativi che non trovano risposte.
Sara Picardi
Fonte copertina Flickr
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