Elena (F)errante: L’amore molesto in un rapporto di amore e odio
Ho letto L’amore molesto a giugno 2021 – sì, sono una di quelle lettrici che appunta ad inizio libro quando comincia la lettura; no, la fine non la appunto mai perché molto spesso le mie letture sono lente e silenti – e l’ho riletto.
Difficilmente rileggo dei libri, ma sentivo la necessità di prendere un po’ di schiaffi, di ritornare alla realtà e scendere dalle nuvole sulle quali stavo navigando forse da troppo – a fine giugno 2022.
Ciò che mi lega ad Elena Ferrante è una connessione singolare: in greco antico φαρμακον (farmacon) significava sia medicinale che veleno, ed è esattamente questo ciò che lei rappresenta per me, a volte un dolce antidoto, a volte una brusca tossina.
Mi sono avvicinata a questa autrice, di cui ancora oggi non è conosciuta la vera identità, con la quadrilogia de L’amica geniale ed ancor prima con la serie tv tratta dai romanzi. Una lettura di corsa, senza mai prendere fiato, un viaggio continuo alla scoperta del mondo e di sé.
Il massimo comune divisore delle sue opere: il quadro di una Napoli disgraziata e il folle moto dei suoi diavoli.
“Persino le stelle, così fitte d’estate, mi sembravano bagliori del mio smarrimento. Ero così decisa a diventare diversa da lei, che perdevo a una a una le ragioni per assomigliarle. Il sole cominciò a scaldarmi. Mi frugai nella borsetta ed estrassi la mia carta d’identità. Fissai la foto a lungo, studiandomi di riconoscere Amalia in quella immagine. Era una foto recente, fatta apposta per rinnovare il documento scaduto. Con un pennarello, mentre il sole mi scottava il collo, disegnai intorno ai miei lineamenti la pettinatura di mia madre. Mi allungai i capelli corti muovendo dalle orecchie e gonfiando due ampie bande che andavano a chiudersi in un’onda nerissima, levata sulla fronte. Mi abbozzai un ricciolo ribelle sull’occhio destro, trattenuto a stento tra l’attaccatura dei capelli e il sopracciglio. Mi guardai, mi sorrisi. Quella acconciatura antiquata, in uso negli anni Quaranta ma già rara alla fine degli anni Cinquanta, mi donava. Amalia c’era stata. Io ero Amalia.”
Amalia e Delia, madre e figlia, ma troppo spesso “uno”.
I sobborghi, la violenza, la grettezza, la famiglia che non ha nulla di famigliare, la mancanza di fiducia, la volgarità, l’identità territoriale, le molestie, l’ingratitudine… Il tentativo inutile di sfuggire per anni da ciò che si è.
La morte misteriosa, suicidio o omicidio che sia, di Amalia, riapre le ferite da cui per anni si era sempre e solo scappati.
Zio Filippo, Caserta, Antonio, il nonno di Antonio, Amalia, Delia, il padre: uomini e donne con le stesse pulsioni, con lo stesso linguaggio, con lo stesso passato, con le stesse ombre; “dopo tanta nebbia ad una ad una si svelano le stelle” ed il fluire del racconto è come una discesa verso Spaccavento: pulisce dalla melma, libera, denuda.
Un amore, molesto sì, verso una madre (non) colpevole di essere anche una donna: “Era a lei che volevo fare del male. Perché mi aveva lasciata nel mondo a giocare da sola con le parole della menzogna, senza misura, senza verità”. Delia si specchia e vede dapprima sé, poi la madre. E le somiglia… troppo.
È il suo stile, è lo stile della Ferrante, lo si ritrova in ogni descrizione minuziosa di Napoli, di certi volti, del sangue mestruale su un paio di slip, dello sperma dopo la masturbazione; “fui raggiunta da un flotto di oscenità in dialetto, un morbido rivolo di suoni che coinvolse in un frullato di seme, saliva, feci, urina dentro orifizi di ogni genere me, le mie sorelle, mia madre”.
Lo consiglio? Sì, ma bisogna abituarsi alla sua scrittura grezza, forte, senza troppi fronzoli. Elena Ferrante è una scrittrice tenace, fragile, intensa. O si odia o si ama.
stile: ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
contenuto: ⭐️⭐️ (argomenti un po’ forti)
voto: ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
Antonietta Della Femina
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