L’odore della mia vita: l’odore di mia madre
Qui è dove si trovano risposte a domande di trasmissione, individualismo ed emancipazione in immagini evocate dove la madre appare allo stato puro.
Da momenti felici a ricordi violenti. Tutto mischiato. Prendo un bel respiro e lentamente domando: voi lo sapete che la gente muore?
Il lavello è pieno di piatti sporchi e quasi mi dimenticavo di accendere il fuoco sotto la caffettiera, che aspetta, fredda, e con un’aria di rimprovero, accanto al bruciatore.
Quel che ricordo con chiarezza dell’avere dieci anni è che si trattava di un’età particolarmente angosciante; vorrei andare per gradi, cercare di rispettare i tempi, di raccontarvi gli odori dei miei ricordi.
La nostra famiglia si stava trasferendo, e io dovetti adattarmi a una nuova scuola e a nuove abitudini, cose che, per certo, producono un forte senso di disagio. Ricordo pure una certa stizza verso tutto ciò che leggevo in quel periodo – illegale quanto inumano. Ho pregato affinché questo non succedesse più, cominciando a dare la forma alle cose e poi continuare a filare.
Così lontano così vicino, nel 1955 la famiglia Pasolini si trasferisce in un’elegante palazzina di Monteverde Vecchio in via Carini. È lì che la madre potrà sistemare un piccolo giardino descritto nella poesia La rabbia del 1960. In mezzo ai cespugli, gli alberi, alle rose, Paso si rende conto di ciò che ha significato l’esperienza romana; esplora a fondo l’emozione di rabbia che avverte dentro come un demone “piccolo, sordo, fosco”. Una rabbia che paragona a quella dei giovani contro il vecchio mondo. Una rabbia che non lo rende padrone di se stesso, che lo fa a pezzi, fino a renderlo un “rottame”.
Perché Pasolini? Perché Pasolini è un capitolo aperto nella mia storia. Un intellettuale il cui scrivere, pensare, dibattere, filmare, è sempre segnato da una ferita aperta e profonda. Il drammatico segno di una mancanza. Il drammatico segno della bellezza che ci circonda. In uno scritto a macchina, trovato postumo fra i suoi ammassi di carta, Paso, ha scritto rivolgendosi alla mamma:
“Ogni volta che mi chiedono di raccontare qualcosa su mia madre, di ricordare qualcosa di lei, è sempre la stessa immagine che mi viene in mente. Siamo a Sacile, nella primavera del 1929 o del 1931, mia mamma e io camminiamo per il sentiero di un prato abbastanza fuori dal paese; siamo soli, completamente soli. Intorno a noi ci sono i cespugli appena ingemmati, ma con l’aspetto ancora invernale; anche gli alberi sono nudi, e, attraverso le distese dei tronchi neri, si intravedono in fondo le montagne azzurre. Ma le primule sono già nate. Le prode dei fossi ne sono piene. Ciò mi dà una gioia infinita che anche adesso, mentre ne parlo, mi soffoca. Stringo forte il braccio di mia madre (cammino infatti a braccetto con lei) e affondo la guancia nella povera pelliccia che essa indossa: in quella pelliccia sento il profumo della primavera, un miscuglio di gelo e di tepore, di fango odoroso e di fiori ancora inodori, di casa e di campagna. Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita”.
La cucina adesso è immacolata – molto più pulita e in ordine di quanto non fosse mai stata prima. Tutto è tornato al suo posto. Il pavimento sembra tirato a lucido. Il bruciatore in ceramica emana un profumo dolce, delicato, cipriato. Sono a casa. Io sono davvero a casa.
Ogni essere umano ha diritto a un riparo. Tu sei il mio.
Francesca Scotto di Carlo
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