Linguaggio e privilegio, cosa diciamo davvero quando parliamo?
Noemi non ce ne voglia, ma le parole non sono solo parole, sono molto di più e dietro la scelta e l’utilizzo di una parola o di un’espressione, seppur inconsciamente, ci sono dei meccanismi sociali di potere talmente interiorizzati da non essere spesso neppure più riconoscibili o avvertibili da colui che parla.
Quando parliamo diciamo qualcosa di noi stessi che va al di là del contenuto stesso, ma su un piano formale possiamo dire che palesiamo la nostra posizione sociale di volta in volta assunta in base ai vari contesti in cui ci troviamo; in alcune situazioni in particolare rendiamo evidente il nostro privilegio rispetto ad un interlocutore x.
Facciamo un esempio pratico e fin troppo diffuso, il catcalling, quando un uomo apostrofa una donna per strada dicendole “ciao bella” nel migliore dei casi, lo fa perché sa in quanto persona di sesso maschile di essere nella posizione sociale per poterlo fare, perché sa che nessuno potrà dirgli niente, perché tanto la scusa è che lo fanno tutti quindi è normale.
Dietro questa molestia, perché dobbiamo chiamare le cose col loro nome, non c’è semplicemente la speranza di “conquistare” la vittima ma si esprime il violento privilegio maschilista di poter commentare e invadere verbalmente lo spazio femminile. Basti pensare che il caso contrario, ossia una donna che si rivolga ad un uomo sconosciuto in quel modo è più unico che raro, come si suol dire.
Questo perché in una cultura patriarcale e maschilista come la nostra all’uomo è concesso esprimere pareri (non richiesti) e commenti che ipersessualizzano e oggettificano il corpo delle donne provocando in esse solitamente un inconscio e malsano senso di colpa che porta a pensare di aver attratto magari con il proprio atteggiamento quel comportamento.
Ma non finisce qui perché troppo spesso, invece di interrogarci e denunciare questo comportamento a livello sistemico come parte di una cultura dello stupro machista e violenta, si fa pubblicamente ricadere la colpa sulle donne attraverso il cosiddetto victim blaming che, come dice il nome, mira proprio a colpevolizzare ulteriormente le vittime.
Da questo esempio (ma avremmo potuto citare il mansplaining e innumerevoli altri) possiamo dedurre come l’atto del parlare, del comunicare in quanto tale si situi in un’articolata e quanto mai complessa trama di relazioni e gerarchie sociali di potere che si esplicano su più livelli significativi e che riproducono un certo status quo proprio attraverso l’utilizzo del linguaggio.
Va inoltre notato come il meccanismo di reiterazione e riproduzione di un certo modello sociale avviene in modo inconscio, poiché certe strutture mentali che derivano dal senso comune del paradigma sociale dominante sono a tal punto fatte proprie da essere eternizzate, considerate come naturali ed immutabili.
Da ciò consegue che viene dimenticata l’origine sociale e costruita, sedimentatasi in secoli di repressione e controllo biopolitico, dei costrutti mentali e delle relative espressioni linguistiche che vanno a formare e reiterare il cosiddetto senso comune che non è mai puro ed innocente, trasparente (per quanto lo si faccia passare come tale) ma è il risultato di “giochi” linguistici e di potere trasmessisi sino a noi.
Comprendere e smascherare le origini storiche e sociali del linguaggio e il suo essere espressione di determinati privilegi ed interessi sociali ci permette di riconoscere la possibilità e anzi la necessità non soltanto di utilizzare le parole con attenzione e cautela ma soprattutto di fare del linguaggio stesso uno strumento di riappropriazione e di lotta sociale.
Benedetta De Stasio
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