#DaDizioni – Vi presento Marino Moretti, un poeta crepuscolare
Marino Moretti nacque a Cesenatico nel 1885.
Il romagnolo non fu uno studente brillante, infatti, non completò gli studi del Ginnasio intrapresi a Bologna e non eccelse nemmeno con la scuola di recitazione frequentata a Firenze.
Romagnolo nell’anima, elesse la Toscana a sua patria ideale, l’artista, lascia emergere la sua vena poetica nella capitale della cultura, frequentando il Gabinetto Vieusseux e pubblicando le sue prime opere Le primavere, Il poema di un’armonia e La sorgente della pace.
Fra il 1902 e il 1903 escono le prime raccolte di novelle e poesie, dove si avverte l’impronta pascoliana.
Nel 1952 ricevette il Premio dell’Accademia dei Lincei per la Letteratura, nel ’55 il Premio Napoli e il Premio Viareggio. L’ultima stagione del poeta vede un felice ritorno alla poesia con la pubblicazione delle raccolte L’ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973) e, l’anno seguente, del Diario senza le date.
Morì a Cesenatico nel 1979.
Lo scrittore ebbe un’esistenza solitaria, integralmente vissuta come proiezione letteraria, infatti, la poesia morettiana fu densa di quel sentimento crepuscolare.
Moretti si cimentò anche nel nuovo linguaggio ironico con I grilli di Pazzo Pazzi del 1951 e La camera degli sposi del 1958.
Una delle raccolte poetiche in cui emerge la sua vena crepuscolare è Poesie scritte col lapis.
Poesie, per l’appunto, scritte a matita, cioè labili, fugaci, transitorie; che riflettono gli interni familiari, con l’eco di un’adolescenza solitaria, raccontata con un linguaggio intimo fitto di una carica umoristica. La figura dell’artista non è opposta a quella del Vate, il poeta si isola nel suo mondo contemplando la bellezza delle piccole cose.
Per arrivare al cuore dell’autore importante è la poesia A Cesena (puoi anche ascoltarla qui*), dove possiamo ritrovarne i leitmotiv principali dell’opera: la noia, la melanconia, la provincia.
Il tema principale è la vittoria di una vita provinciale e borghese, che disillude i sogni e le speranze della giovinezza. Tutto nasce dalla visita fatta alla sorella, cara, sposata da poco e trasferitasi a Cesena.
Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,
il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,
bella!
La pioggia accompagna il tono malinconico e dimesso, dove viene descritta l’estraneità alla cittadina. Una estraneità anche con la sorella – nuora –ormai non è più bambina e che racconta con voce soffocata – rauca – questa nuova vita e questi nuovi episodi raccontati in fretta e confusi, scomposti – quando, come, perché – con le classiche ripetizioni tipiche di un dialogo confidenziale.
poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,
quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.
Un discorso interminabile, ricco di pathos e delusioni – Ancora parli, ancora parli – e l’incomunicabilità si fa sempre più evidente, quella tra una donna – sposata da poco, incinta troppo in fretta, con già mille responsabilità – e quella di un fratello – confuso, distratto dalla pioggia, nostalgico – uno scarto che è avvenuto senza essere percepito e la nostalgia viene espressa perfettamente in quell’ultimo verso isolato:
E l’anno scorso eri così bambina!
Federica Auricchio
Vedi anche: DaDizioni – Ripetizioni ai tempi della DaD: crepuscolarismo