Jusqu’ici tout va bien… poi arriva il verlan!
Quanto ci piace il francese, la lingua dell’amore, così musicale, elegante, romantica, piacevole d’ascoltare… certo, finché non parli davvero con un francese.
Tra il linguaggio studiato e quello parlato abissi insondabili: oggi vi parlerò del verlan, l’argot (ormai non tanto) segreto dei francesi e il gergo più comune in cui potrete imbattervi nella Ville Lumière.
Studia il francese, dicevano, così non avrai problemi quando ti trasferirai a Parigi, pensavo. Altroché. Sono arrivata in Francia devastata da notti insonni dettate da incubi sulle varie declinazioni verbali, per poi scoprire che il francese informale, quello che parlavano i miei compagni di corso, non aveva quasi nulla a che vedere con ciò che avevo imparato al liceo, o dai libri di preparazione per il DELF. Insomma, mi sembrava di essere stata teletrasportata in una scena de La Haine (1995).
All’ennesimo cimer, ricevuto dopo che mi fu chiesta una garetteci, chiesi aiuto al mio amico Quentin, che mi spiegò l’eccentrica mania dei francesi di invertire l’ordine delle sillabe nelle parole: “è così che femme diventa meuf… a volte poi ci piace invertire anche le parole già invertite, quindi meuf si trasforma in feumeu”. Quoi?
Il verlan (letteralmente l’envers de l’envers: l’en-ver’ – verlan) è uno slang francese che consiste nel creare delle nuove parole invertendo le sillabe di parole già esistenti, talvolta avvalendosi dell’apocope (elisione dell’ultima vocale o sillaba della parola) e dell’aferesi (perdita della prima vocale o sillaba della parola) per renderle più facilmente pronunciabili.
Queste trasformazioni hanno lo scopo di mantenere una certa somiglianza fonetica con il termine ufficiale, non grafica, motivo per cui in verlan, da l’envers, -en diventa -an (secondo la pronuncia di envers), per l’appunto, il contrario di “contrario”.
L’origine di questo linguaggio è ancora oggetto di accese controversie. Nonostante siano in molti a pensare impropriamente che sia nato per soddisfare le esigenze di segretezza della criminalità presente nelle banlieues parigine, risulta essere in realtà frutto di una tendenza già radicata nella lingua popolare.
Le sue prime tracce risalgono infatti al XVI secolo, sebbene la prima vera e propria definizione di verlan, come pratica linguistica diffusa e affermata, la si può collocare storicamente nel 1953, anno in cui nel suo libro Rififi lo scrittore Auguste Le Breton ne fa espressamente menzione, seppur con la grafia verlen.
Una maggiore diffusione di questo linguaggio avverrà poi a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Il successo definitivo di quello che diventerà poi un vero e proprio linguaggio identitario, simbolo d’appartenenza a un gruppo ristretto, si ebbe solo grande all’attenzione ad esso portata dai media, attraverso fumetti, radio e film, primo tra tutti il capolavoro di Kassovitz prima menzionato, dando vita a interi dizionari di nuovi termini.
Mescolandosi spesso con parole straniere, in particolare arabe e inglesi, è diventato nel tempo un linguaggio utilizzato in tutta la nazione, in particolar modo in seguito all’impiego massiccio che se ne è fatto nella musica rap, da cui deriva probabilmente questo collegamento, nell’immaginario collettivo, con le gang della microcriminalità. Ad oggi, nella sua forma meno sovversiva, viene impiegato da larghi strati della popolazione giovanile di estrazione borghese.
Essendo il verlan un gergo essenzialmente orale, cercare di definire delle regole ben precise per la formazione dei nuovi termini risulta complesso, per cui è possibile trovare sempre delle eccezioni. In linea generale, potremmo così riassumere il processo di trasformazione delle parole: la prima fase prevede l’aggiunta di una e muta (schwa) o la soppressione dell’ultima vocale se necessario (énervé – arrabbiato – che diventa énerv’) einversione attraverso la sillabazione (véner).
Questo processo non si applica chiaramente solo alle parole isolate – sarebbe troppo semplice così! – ma anche ad alcune espressioni verbali: comme-ça diventa ça-comme, ce-soir può essere detto soirce e vas-y viene spesso reso come zyva.
Esiste poi anche la variante del double verlan, ossia la doppia “verlanizzazione” della parola su cui mi aveva illuminata il mio angelo custode del francese (grazie Quentin, bisous).
Un ulteriore esempio di questa follia linguistica è fornito dalla parola arabe, che prima diventa reubeu e successivamente si trasforma in beur: avreste mai detto che queste due parole avrebbero potuto avere lo stesso significato? Adesso probabilmente più nulla vi sembrerà improbabile, se si tratta di lingua francese.
Alcune di queste inversioni hanno avuto più successo di altre, tanto da entrare a pieno titolo nel francese colloquiale: è il caso di keum (da mec, ragazzo), ouf (da fou, folle), pécho (da choper, sedurre), chelou (da louche, losco), zarbi (da bizarre, strano), relou (da lourd, noioso) e, credetemi, la lista è ancora lunga ma temo che dovrò fermarmi qui.
Un metodo molto utile per familiarizzare con il verlan potrebbe essere l’approcciarsi al rap francese, cosa che da appassionata del genere consiglio a chiunque voglia approfondire l’immensa cultura hip-hop di questo paese: artisti come Damso, Nekfeu, PNL, Dinos, Ninho, Gazo e PLK, giusto per citarne alcuni, ne fanno un ampio utilizzo nelle loro canzoni, che potrete divertirvi a decifrare.
Non a caso, a proposito di musica francese, mi sembra impossibile non menzionare anche il famosissimo Stromae, il cui nome d’arte deriva dalla verlanizzazione della parola Maestro. Vi ricorda forse qualcosa? Esatto, Rkomi, mi sto riferendo proprio a te.
Parallelamente al fenomeno francese, negli stessi anni, si è affermato infatti anche in Italia una sorta di verlan semplificato, chiamato non a caso riocontra o trancorio a seconda delle province di diffusione (entrambi i termini sono inversioni della parola “contrario”).
A differenza del suo cugino francese, questo gergo non ha avuto un successo tale da rientrare nel lessico italiano comunemente utilizzato, ad eccezione, chiaramente, dell’ambiente rap. Prendo a titolo di esempio Lazza, che spesso nei testi si presenta come Zzala, e Gué Pequeno, che spesso adoperano il riocontra per camuffare parole non propriamente adatte a un pubblico di ascoltatori abbastanza giovane.
Concludo lasciandovi un ultimo esercizio di stile ad opera di Nerone, Warez e Secco, il cui titolo non è altro che L’Accademia della Crusca scritto in riocontra, linguaggio che viene ripreso nel testo per tutta la durata de brano.
Voilà, alla simapros!
Rebecca Grosso
Leggi anche: A passo di danza Degas torna a Napoli