Marius Jacob: il bandito anarchico che ispirò Lupin
Tutti conosciamo le avventure del ladro gentiluomo più famoso di tutti i tempi.
Che sia per i romanzi, i film per il suo omonimo nipponico, tutti noi abbiamo subito il fascino di questo personaggio.
Ma c’è mai stato davvero un Lupin nel mondo reale?
La risposta non è affatto facile.
Il suo autore, Maurice Leblanc, ha sempre negato di essersi ispirato ad una figura realmente esistita.
Ma le coincidenze con la biografia di un bandito francese molto attivo nei primi del ‘900 sono davvero troppe per non pensare a un qualche collegamento.
Oggi raccontiamo la storia di Marius Jacob, vero e proprio eroe anarchico.
Ci troviamo nella miseria del quartiere di Vieux-Port, a Marsiglia. Un ragazzino figlio di un marinaio si imbarca per seguire il sogno del padre.
Ben presto conosce la dura vita del mare e nella sua mente si insinua profondamente un codice morale molto netto che vede la società divisa in sfruttati e sfruttatori.
Dopo essersi ingegnato ad aprire qualunque cassaforte già in giovane età, abbandona per sempre la vita del marinaio e inizia quella del bandito, destando stupore per il crescente numero dei furti.
Si stima che assieme alla sua banda, “i lavoratori della notte” Marius Jacob abbia compiuto almeno 150 furti.
Ma ciò che ha fatto supporre un possibile legame con Lupin sta proprio nella suo curioso modus operandi nei furti. Egli ricorreva spesso all’arte del travestimento e beffava le sue vittime con complicati stratagemmi.
E ciò che affascinò molti e risultò incomprensibile ai più fu proprio il suo carattere di “giustiziere.”
Scelse come vittime unicamente ricchi aristocratici o imprenditori.
Si badi bene, però: non si trattava di un novello Robin Hood e proprio in questo sta la sua grandezza tutta umana e la sua differenza col personaggio letterario.
Jacob era famoso nei circoli anarchici e rivendicava il suo diritto di essere ladro per poter permettere agli sfruttati di godere del diritto di vita all’infuori dell’ angosciante macchina del capitalismo.
Certamente non disdegnò di donare parte del suo ricavato ai circoli anarchici e alle famiglie degli operai più poveri che conosceva, ma non tutto si riduceva nel donare ai poveri.
Egli rubava per se stesso, ma ancor di più per un ideale. Seguendo il suo personalissimo codice morale, decise di non rubare nelle case dei medici e degli scrittori perché riteneva che fossero profondamente utili alla società.
Quando durante un furto seppe che la villa in questione non apparteneva ad un ricco tenente ma ad un famoso scrittore interruppe l’operazione e lasciò un biglietto di scuse.
Quando venne catturato nel 1903, dinanzi ad una platea che non poteva comprenderlo eppure ne subiva ugualmente il fascino, difese appassionatamente le sue idee e i suoi stessi furti.
Sostenne di amare profondamente il lavoro, ma di ripugnare il dover soccombere ai soprusi dei parassiti della società e si augurò il giorno in cui l’anarchia vera fosse sopraggiunta, in virtù della libertà di tutti gli sfruttati.
Evase numerose volte, finché fu condannato al durissimo carcere della Guyana francese, dal quale lo salvò solo la grazia dopo 24 anni.
Durante il secondo conflitto mondiale si unì alla lotta partigiana, si sposò e trascorse il resto della sua vita come obiettore di coscienza, dando rifugio a numerosi ladri e dissidenti.
La sua morte corona poeticamente una vita degna del più avventuroso dei romanzi.
Alla veneranda età di 75 anni, dopo aver dato una festa in casa sua dove offrì la cena a sei poveri orfani, diede l’ultimo saluto al suo cane e si iniettò una letale dose di morfina.
«…Ho vissuto un’esperienza piena di avventure e sventure, mi considero soddisfatto del mio destino. Dunque, voglio andarmene senza disperazione, con il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. Ho vissuto. Adesso posso morire. P.S. Vi lascio qui due litri di vino rosato. Brindate alla vostra salute.»
Gabriel Santomartino
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