Qualcuno mi dica che cosa voglio fare da grande?
Il sistema educativo ci prepara a funzionare, non a creare. Il che, se ci si deve progettare un futuro, può risultare un piccolo problema.
Premessa: con le riflessioni e i suggerimenti proposti nell’articolo non intendo ergermi ad autorità suprema dell’educazione o nuova Montessori.
La perdita di punti di riferimento e la confusione in merito al futuro sono evidenti.
Io ho tentato semplicemente di raccogliere qualche riflessione sull’argomento, accettando quel non so cosa fare della mia vita, invece di respingerlo, per cercare di capire da dove avesse origine. Per fare ciò sono dovuta tornare molto indietro, a quando ancora non mi avevano insegnato a far entrare la mia vita in un box.
Tutto ha inizio all’asilo ( lo so, parecchio indietro), tappa non obbligatoria ma consigliata per lo sviluppo delle abilità sociali e dell’indipendenza del bambino, dove si viene seguiti e stimolati in attività diverse e nel gioco.
Poi arrivano le elementari. Poi le medie, terminate le quali si sceglie in modo totalmente casuale/imposto la scuola superiore dove si verrà rinchiusi come minimo fino ai 16 anni.
Ed è al momento del diploma, smaltita la sbornia del viaggio di maturità, che il sistema crasha.
Ed ora che fare?
Hanno la presunzione di volerci autonomi e proattivi dal giorno alla notte, ma a partire da quando siamo piccoli ci hanno caldamente obbligato a seguire un manuale d’istruzioni standard…senza mai neanche chiedersi se andasse bene per noi.
Il totale spaesamento in cui ci si trova dai 18/19 anni in poi, mostra in modo molto evidente che qualcosa nel processo non ha funzionato. Le domande che ora ci tormentano come: Cosa vuoi fare nella vita? Studierai? Lavorerai? Dove? Per quanto? ci appaiono nuove, o meglio, mai percepite come un bisogno, come una giusta preoccupazione.
Ci penserai più tardi, adesso studia che poi capirai… poi da un giorno all’altro ti viene richiesto di tirar fuori la tua vocazione di vita, la tua dote nascosta, la tua ovvia predisposizione.
Viene quindi da chiedersi: se il sistema educativo e sociale non ci ha insegnato a vivere la nostra vita e ha trovare la nostra strada, allora che cosa ci ha insegnato?
Innanzitutto il perfezionismo e la paura di fallire.
Le valutazioni pongono subito in chiaro l’obiettivo principale della tua vita da studente: conoscere nei minimi dettagli un argomento, o fingere molto bene, per raggiungere il massimo. Se eventualmente ciò che studi è di tuo gradimento meglio ancora, ma diciamo che non è così importante.
Lo stimolo principale utilizzato è l’educare al terrore del fallimento, l’inaccettabilità dello stesso.
Sbagliare è una tragedia, un momento di disperazione e mai di riflessione. Non c’è nulla da pensare, solo da riassettare le cose e nascondere la vergogna di una caduta… come se fosse qualcosa di unico, accaduto solo a noi.
L’errata concezione del fallimento ci porta spesso a non riuscire a riflettere sull’accaduto, continuando a sbattere la testa invece di provare a cambiare metodo o prospettiva.
Il fallimento non dovrebbe rappresentare un momento di sconfitta senza speranza, quanto un’agnizione: la realizzazione di un approccio o della scelta di un percorso non adatto a noi.
Ho frequentato un anno di Politecnico prima di realizzare che non facesse per me: il momento del fallimento è stato paradossalmente l’attimo di chiara visione delle cose dopo mesi e mesi di cieco rifiuto di me stessa. Ricordo nitidamente di essermi chiesta come mai non mi sentissi in colpa, ma piuttosto liberata e felice… mi avevano sempre insegnato a reagire male alle cadute. Poi realizzai di aver parlato per la prima volta con me stessa, coi miei desideri e le mie passioni.
Non prendiamoci in giro, fallire non è un bel momento, ma è sicuramente un’occasione importante per fare un piccolo reset. Giusto per vedere di non aver perseguito un obiettivo non nostro, magari suggerito dalla paura del giudizio sociale.
Secondariamente, ci hanno insegnato le stesse cose nello stesso modo.
Volendoci paragonare a dei mobili dell’Ikea (paragoni elevati, me ne rendo conto), potremmo immaginarci come vari modelli di uno stesso oggetto: ognuno con le proprie caratteristiche e differenze. Risulterebbe complicato pensare di montare due oggetti simili ma di due modelli diversi con lo stesso manuale.
Perché allora utilizzare lo stesso metodo di insegnamento per tutti?
Ognuno ha una mente e un metodo diverso di apprendimento, viene da un contesto sociale differente ed ha passioni diverse.
Eppure il percorso educativo non focalizza l’attenzione sul cercare di integrare l’interesse con i concetti, ci si assicura solo che l’alunno abbia fatto il compitino.
Il focus è il risultato, mai il percorso.
Il momento tragico arriva quando, dopo 14 anni di disinteresse verso propensioni e passioni, si è tenuti a ritirarle fuori… magari non sapendo neanche più dove cercare.
Le inclinazioni, per nulla valorizzate ed incoraggiate, si perdono.
Conseguentemente, diventiamo macchine più reattive che proattive. Siamo perfettamente in grado di svolgere il compitino, di seguire il manuale, ma sempre meno riusciamo a creare, a pensare e progettare in modo autonomo.
Arrivati nel mondo dei grandi, dove nessuno si cura di spiegarti come fare e cosa fare, non siamo più capaci di funzionare. Ci troviamo totalmente spaesati di fronte all’incertezza, alla possibilità di fallire.
Questo è una costante ben visibile nella nostra generazione: che punta al voto senza vedere oltre e che preferisce tonnellate di manuali da imparare a memoria piuttosto che un singolo progetto con cui provare a ragionare sui temi di un corso, in cui poter apportare qualcosa di suo.
Mi duole informarvi che l’università finirà e che a quel punto, dovrete accettare che nessuno più si presenterà con la magica formula del senso della vita in formato CFU.
Tremendo ed infimo meccanismo sui banchi è la ricerca di approvazione.
Abituati ad ottenere un feedback costante sul nostro lavoro attraverso i voti, diventiamo incapaci di autovalutazione.
Io so (ed implicitamente io valgo), solo in relazione all’approvazione di un autorità, in questo caso il professore.
Questo basarsi sull’esterno ci porta a trovarci totalmente persi nel momento in cui dobbiamo prendere una decisione personale, perché nessuno ci ha mai di fatto considerati capaci.
Altra dinamica, che discende direttamente da quanto detto, è quella del gregge.
Quando scelsi di frequentare il Politecnico mi autoconvinsi che fosse la strada perfetta per me, che risolvere matrici e fare studi di funzione fosse sempre stato il mio sogno… solo un sogno molto nascosto.
Quando decisi di cambiare compresi di aver scelto il Politecnico seguendo il mantra che fin da piccoli ci insegnano. La santissima trinità della vita dei sogni: bei voti= lavoro ben retribuito=felicità.
Al di fuori della totale inattualità del parallelismo bei voti= buon lavoro, il fatto che il lavoro sicuro e ben retribuito siano legati in modo diretto alla felicità è ovviamente un messaggio sbagliato.
Non mi metto di certo a dire che il denaro nella vita non agevoli o che non possa rendere felici in certi casi. Tuttavia, votare la propria vita a degli studi e poi ad un lavoro che non fa per noi per il mero scopo di guadagnare, è opinabile.
Se pensate che facendovi 5 anni di una facoltà che non vi piace sia il modo giusto per guadagnare, pensate anche al fatto che sarete costretti a per il restante tempo della vita a fare un lavoro che odiate e che probabilmente non avrete neanche il tempo per spendere quella montagna di denaro.
Come avrete inteso, mi sono trovata più volte ad affrontare questi problemi. A sbattere la testa pur di non accettare il fatto che non fossi stata graziata dalla santissima trinità come gli altri miei amici ingegneri.
Ho sentito la necessità di capire il perché fossi stata così cieca verso me stessa e il perché lo fossero state anche alcune delle persone intorno a me.
Ragionare e studiare la questione di certo non risolve il problema ma per lo meno può aiutare a individuarlo e a correggere il tiro quando ci si perde di vista.
Se ripenso alla mia esperienza scolastica, avrei desiderato molto che il nesso scuola-vita subentrasse prima. Vivere quel periodo con la prospettiva dell’utilità delle cose che stavo imparando.
Avrei gradito percepire quelle aule più come un trampolino che come un parcheggio.
Quella sensazione di vita rimandata e di parentesi atemporale che costituisce l’esperienza scolastica italiana è bellissima, ma prima o poi finisce.
Promuovere fin dall’inizio del percorso educativo la consapevolezza e lo sviluppo individuale potrebbe essere un’alternativa sorprendentemente più proficua rispetto all’accusarci di pigrizia, svogliatezza o inettitudine.
Concluderei dicendo che non mi sento certo qualificata per emergere con nuove teorie sull’educazione (forse perché in 5 anni di superiori ne ho studiate troppe e ora le repello); tuttavia so che avrei voluto sentirmi maggiormente artefice del mio destino da piccola, o per lo meno sentirmi incoraggiata a rifletterci, perché nel momento in cui è stato passato nelle mie mani non avevo idea di cosa farci.
Leggi anche: La laurea non è una gara di velocità ma un percorso formativo