Scienza alle femmine: intervista a Virginia Marchionni
Presentare Virginia Marchionni in breve non è affatto semplice.
È una donna dotata di un’insaziabile curiosità, che la porta a coltivare molti interessi, a studiare incessantemente e a esplorare i più disparati ambiti disciplinari; il tutto con una passione che è, a mio avviso, contagiosa.
Per comprendere la vastità dei suoi interessi, basta dare un’occhiata al suo curriculum: diplomata al liceo classico e laureata in chimica, ha preso poi un master in comunicazione della scienza e, attualmente, studia “Didattica e comunicazione delle scienze naturali”. Ma i suoi interessi non si fermano ai suoi studi accademici: narrativa e letteratura, crescita personale e salute mentale, femminismo e studi di genere sono alcune degli argomenti di cui si occupa.
Competenza e cuore sono i due ingredienti con i quali ha creato, nel 2020, la pagina Instagram “Scienza alle femmine”, in cui ha iniziato raccontando storie e biografie di scienziate. Nel tempo, Scienza alle femmine è cresciuta e adesso non è più solo una pagina Instagram, ma un progetto che si propone di discutere di scienza in un’ottica femminista e intersezionale, con l’obiettivo di promuovere la costruzione di un ambiente scientifico diverso, che dia pari opportunità a tuttə, per il bene della ricerca scientifica e della società.
Ho iniziato a seguire la pagina “Scienza alle femmine” lo stesso giorno cui è nata per cui, quando Virginia Marchionni ha accettato di fare un’intervista con me, ho saltellato per un pomeriggio intero.
Con le guance rosse e una voce troppo acuta per l’emozione le ho chiesto, per prima cosa:
Come mai ha scelto questo nome per la pagina?
«Mi sono ispirata alla pagina “L’ha scritto una femmina”. Quando ho deciso di creare “Scienza alle femmine” volevo farlo un po’ sulla scia di pagine che stavano nascendo, come appunto “L’ha scritto una femmina” o “L’ha diretto una femmina”. Mi sono detta: faccio la stessa cosa, però a tema scienza. All’inizio avevo pensato a nomi come “L’ha scoperto una femmina” o “Lo ha inventato una femmina”, però non mi piacevano tanto, un po’ perché pensavo suonassero male, un po’ perché non riuscivo a scegliere il verbo da usare, visto che le scienziate non fanno tutte la stessa cosa. E così è nata “Scienza alle femmine”. Mi piaceva l’idea di usare la parola “femmina”. Alcune persone me l’hanno un po’ contestata, altre non la capivano. Ancora oggi, alcuni leggono “scienza al femminile”, o comunque danno un’altra interpretazione di scienza alle femmine, perché “femmina”, di solito, viene usato come aggettivo. Si preferisce usare la parola “donne”, come nome. Mi piaceva l’idea di riappropriarmi della parola “femmina” per superare l’accezione dispregiativa che di solito le viene data e restituirle un nuovo significato».
Quando hai scelto di studiare chimica all’università, mai sentito su te stessa il pregiudizio di star facendo una cosa che “non era per femmine”?
«Rispondo sempre inaspettatamente a questa domanda. No, e non è questo il motivo per cui è nata scienza alle femmine. Io però ho una storia un po’ particolare, perché al contrario della maggior parte delle ragazze e anche al contrario di quello che socialmente subiscono molte ragazze, ho sentito in realtà una spinta a iscrivermi a una facoltà scientifica, perché mia madre è fisica e mia nonna era fisica. C’è una grande tradizione di scienziate in famiglia; quindi, in realtà, quando ho dovuto scegliere la facoltà ero orientata verso materie scientifiche, anche se le mie aspirazioni sono diverse, o meglio, sono anche altre. Mentre studiavo chimica, in realtà, non mi rendevo tanto conto del problema, un po’ perché ero in triennale e ai livelli più bassi si percepisce meno la discriminazione di genere in ambito scientifico. A ripensarci adesso, il fatto che quasi tutti i miei professori fossero uomini ha avuto un po’ di impatto, anche se non saprei quantificarlo, però sicuramente mi rendevo conto, anche inconsciamente, che la professione del chimico a un certo livello, a livello accademico soprattutto, era per soli maschi, perché professoresse donne ne avevo davvero pochissime. Anche se forse è una cosa che ho realizzato dopo. Fortunatamente non ho subito particolari molestie o discriminazioni durante il mio percorso universitario, però, appunto, mi sono fermata alla triennale ed è una cosa da tenere in considerazione. Di solito gli episodi discriminanti aumentano man mano che si arriva ai gradi più alti della carriera accademica. Parlando con delle scienziate, cosa che mi capita spesso di fare con scienza alle femmine, ho capito che il punto di rottura si raggiunge con il dottorato. Lì si vede davvero la differenza, mentre durante il corso di laurea la cosa è più mascherata».
Invece, tornando a scienza alle femmine, che fonti utilizzi per raccontare le storie di scienziate che racconti sul profilo?
«Principalmente, libri che leggo. Per esempio, recentemente ho letto Scienziate nel tempo: più di 100 biografie. Oppure, di solito leggo un libro su una scienziata in particolare e ne racconto la storia. È molto difficile trovare fonti online. Ovviamente, si trovano per le scienziate più famose, che però sono tre o quattro. Su tutte le altre è davvero difficile trovare fonti. Di solito, leggo molti libri divulgativi, perché è un argomento che mi appassiona, e li utilizzo come fonti. Recentemente ho fatto un podcast, che non è mai uscito su Scienza alle femmine su Maria Margaretha Kirch, un’astronoma, sulla quale però si trovano pochissime notizie. È stato davvero difficile trovare informazioni su di lei. Per fare un lavoro approfondito bisognerebbe andare a scavare in vecchissimi archivi».
Hai mai temuto di non trovare più scienziate di cui parlare, visto che sono così poche?
«No e non penso che succederà! Fortunatamente, sono poche rispetto agli uomini, ma non sono poche in generale. Anzi, di solito non riesco a parlare di tutte le scienziate di cui vorrei. Magari mi segno il nome di una scienziata che vorrei portare sul profilo e poi presa da altre mille cose non riesco. Ho liste lunghissime. Poi, fortunatamente nascono continuamente nuove scienziate, quindi immagino che tra dieci anni farò ancora scienze alle femmine e parlerò delle dottorande di oggi che saranno le scienziate di domani».
C’è un progetto che vorresti portare sul profilo e che ancora non sei riuscita a portare?
«Sì. mi piacerebbe fare un book club, ma non so se lo farò mai. Anche perché, si è capito, mi piacciono molto i libri, ma ho l’impressione che a volte me le suono un po’ da sola e non so quanto la cosa possa interessare altre persone. Scienza alle femmine lo seguono persone molto diverse, magari questi sono interessi solo miei. Vedremo se avrò il tempo e se ci sarà interesse.
C’è anche un’altra questione di cui mi piacerebbe molto parlare, ma ancora non ho iniziato a farlo, un po’ per paura di non essere in grado, un po’ perché temo non ci sia interesse. Sarebbe bello parlare di scienza da un punto di vista filosofico, fare una critica femminista alla scienza, insomma, portare contenuti meno divulgativi e più filosofici. Però, un po’ non mi sento in grado perché non sono una filosofa; alcune cose non le capisco neanche io, quindi sarebbe difficile comunicarle ad altri; un po’ non so se c’è interesse, perché i contenuti leggeri ovviamente riscuotono più successo. Giustamente, sono sui social non scrivo trattati, quindi è più semplice portare contenuti divulgativi. Ma, per come sono fatta, mi piacerebbe approfondire alcune questioni. È una cosa che voglio fare da tanto, perché leggo moltissimo su questi argomenti. Per il momento, sono un mio bagaglio culturale che però non riesco ancora a portare fuori».
Al di là di scienza alle femmine, ti piacerebbe quindi portare avanti altri progetti negli studi di genere?
«Sì, io studio Didattica e comunicazione delle scienze naturali all’università di Bologna. È un corso interfacoltà, quindi studio scienze naturali, ma faccio anche esami di storia, antropologia e tra gli esami che farò il prossimo anno, c’è un esame chiamato donne genere e scienza. A una piccola parte di me piacerebbe approfondire il tema anche a livello accademico, magari dopo la laurea. Non dico fare un dottorato, perché le esperienze che ho sentito mi hanno spaventato un po’, però mi piacerebbe fare ricerca sul tema. Non so in che modo. È un tema che mi appassiona molto».
Adesso vorrei farti un paio di domande per far capire perché è così importante il progetto che stai portando avanti e i temi che tratti. Il fatto che ci siano poche donne a occuparsi di scienza è un danno per la ricerca scientifica stessa. Ci spieghi perché?
«Qui si entra nella questione spinosa dell’oggettività e della soggettività della scienza e dell’etica della ricerca. C’è una concezione della scienza che la vuole come oggettiva per cui, che sia fatta da donne, da uomini o da robot è la stessa cosa, perché essendo oggettiva, è uguale per tutti. In realtà non è così. La scienza è un’impresa umana. Gli umani hanno inventato un metodo, assolutamente valido, ma fallibile, appunto perché creato da esseri umani. Quindi, la persona che fa scienza e che fa ricerca, ci mette per forza qualcosa di suo, perché è un essere umano e non può fare altrimenti. Anche solo nel momento in cui ci si pone le domande di ricerca, si parte dal proprio punto di vista. Se la ricerca scientifica è portata avanti per il 90% da persone che hanno le stesse caratteristiche, quindi uomini, bianchi, cisgender, borghesi, provenienti dal nord del mondo e così via, vuol dire prendere in considerazione solo quel punto di vista, che è validissimo, ma parziale. In questo modo si escludono punti di vista di persone che hanno caratteristiche diverse. Nel caso delle donne la questione è plateale, perché le donne sono metà della popolazione mondiale. Le domande di ricerca possono essere semplicemente diverse se fatte da persone con background ed esperienze di vita diverse. Ampliare il tipo di ricerche che si fanno e le risposte che si danno significa migliorare la ricerca, e ovviamente questo sarebbe un bene per tutti, perché una ricerca scientifica migliore va a beneficiare tutta la società, non solo le donne».
Molto spesso mi sono sentita dire che noi donne vediamo sessismo ovunque, quando semplicemente si potrebbe pensare che le donne siano più interessate ad altre materie piuttosto che alle materie scientifiche e che non c’è niente di male in questo. Come risponderesti a questa affermazione?
«È una cosa che è stata detta spesso anche a me. Sarebbe vero e sarebbe equo se a prescindere dal genere fossimo educati allo stesso modo, allora in quel caso le nostre libere scelte sarebbero davvero libere e si potrebbe parlare di interesse o di predisposizione personale. Ma poiché ancora siamo educati in modo diverso a seconda del genere, perché ci sono degli stereotipi che noi riproponiamo a seconda che la persona sia un bambino o una bambina, un ragazzo o una ragazza, non si può dire che la scelta sia libera. Se insegniamo a una bambina, fin quando va all’asilo, che le devono piacere i bambolotti e la cucina e non le costruzioni o il piccolo chimico, stiamo indirizzando quella bambina verso predisposizioni che diamo per naturali, ma che non sono naturali. Nascono da stereotipi che noi stessi veicoliamo. Questo vale anche per i bambini.
La differenza però è che stereotipi di questo tipo tengono le bambine lontane dalla scienza, facendo un danno alle ragazze, alle donne e alla società, perché la scienza è la nostra costruzione del sapere ed è importante che vi partecipino anche le donne. Quindi, per tornare alla domanda, non esiste libera scelta, nel momento che questa scelta è dettata da pregiudizi che inculchiamo nella testa dei bambini fin da quando sono piccoli. Quando la società sarà equa, allora potremmo dire che la scelta è libera».
Nadia Rosato