Ci siamo passatə tuttə, dalla parte del torto
A chi lamenta che ormai si parli sempre degli stessi temi, rispondo che, sarà anche vero, eppure non se ne parla mai abbastanza.
Esempio pratico.
L’altra sera passeggiavo con un’amica, dopo aver cenato, stavamo raggiungendo un locale dove c’era un po’ di gente conosciuta. Era sabato. Eravamo stanche entrambe, ma con voglia di fare due chiacchiere e prendere una boccata d’aria. Non faceva freddo, solo freschetto, strano per essere novembre inoltrato. Svoltando per una delle cento stradine che portano alla piazza dei locali, ogni tanto incrociavamo qualche gruppetto di ragazzi o ragazze che parlavano tra loro. Noi anche stavamo parlando, non ricordo troppo nitidamente di cosa.
Al sodo.
Da lontano, a un certo punto, abbiamo visto un signore sulla quarantina che camminava in direzione contraria alla nostra. Ondeggiava, era visibilmente ubriaco. Mi sono spostata un po’ a sinistra per lasciargli spazio sul marciapiede. Ce n’era parecchio, di spazio. Così come parecchio doveva essere stato il consumo di alcol, o sostanze di altro genere, da parte dell’uomo sulla quarantina. Pochi secondi, l’uomo aumenta il passo, mi dà una spallata, buttandosi addosso a me con tutto il peso, e se ne va, ondeggiando ancora, biascicando qualcosa.
È stato un momento. Ho perso l’equilibrio, mi ha tenuto la mia amica, poi siamo rimaste ferme. E in silenzio.
“Ci fosse stato un ragazzo al posto mio, non sarebbe successo”, penso.
“Ci fossero stati dei ragazzi al posto nostro, non si sarebbe avvicinato”, mi dice lei.
Parliamo dell’episodio per tutti i dieci minuti che ci separano dal raggiungere il nostro gruppo di amici, ogni tanto ci fermiamo e mi chiede se sto bene. Sto bene, un po’ indolenzita, un po’ intontita. Più la seconda. Lo è anche lei. Mentre commentiamo, ogni tanto ci scappa da ridere.
Alla fine, arriviamo a destinazione e non ne parliamo più. Ci riesce facile.
Non è stato nulla di che. Niente di nuovo. Può capitare.
Eppure questo è solo uno degli episodi che, se non quotidianamente, molto spesso, siamo obbligate a tollerare, per essere donne, per camminare da sole, o anche in gruppo, per tornare tardi la sera, o uscire troppo presto la mattina.
E per quanto si facciano campagne di sensibilizzazione, non sono ancora sufficienti. E non ci bastano, né ci proteggono, quando incrociamo il timore, l’ansia e la paranoia.
Abbiamo paura, perché gli sguardi della gente non sembrano mai innocenti, anche quando lo sono. Perché ci siamo abituate a vedere il pericolo nelle piccole cose, nei bisbigli e nei sospiri. Perché la società ci ha educato alla rassegnata convivenza con situazioni che “purtroppo sono all’ordine del giorno” e delle notizie di cronaca, più che alla reazione. Perché preferiamo cambiare marciapiede quando davanti a noi c’è un gruppo di persone. Perché non è piacevole ascoltare i fischi e i commenti, o sapere di essere osservata.
Perché non è mai complimento. È attacco, è prepotenza, è imposizione.
Non saremmo obbligate a starvi a sentire, né a camminare con i vostri occhi che misurano i nostri passi. Non saremmo obbligate a tollerare le banalità che vi escono dalla bocca, né i versi, né le risate.
Effettivamente non lo siamo.
Siamo obbligate ad altro.
Siamo obbligate ad abbassare la gonna e a controllare di non avere nulla fuori posto. Siamo obbligate a mettere un cappotto lungo, a coprire le gambe o la scollatura. Siamo obbligate a mettere una maglietta larga, a comprare una taglia in più e ad allacciare un altro bottone. Siamo obbligate a sorridere, a ignorare, a guardare in un’altra direzione e a tirare dritto, qualsiasi sia l’inconveniente sul percorso.
Siamo obbligate a limitarci, non perché ci venga detto, ma perché è meglio così, “con quello che si sente”. E quante se ne sentono. E quante, invece, non ne sentiamo. E rimangono nell’ombra, al buio, a fare eco nella testa di chi avrebbe voluto gridare, ma non è riuscito a farlo.
Siamo obbligate a convivere con il “troppo poco”, “non è nulla”, “sicuramente hai frainteso”, “avresti dovuto capirlo”.
Nessuno ci costringe, non siamo qui a fare vittimismo, ma “conviene” e quindi ci adattiamo, a denti stretti, e ce ne lamentiamo, anche se continuiamo ad adattarci.
Possiamo fare altro?
“Conviene” per evitare di incitare comportamenti che non gradiremmo, per non dare adito a incomprensioni, per non far pensare altro. Sempre altro.
Perché la colpa, più di chi ce l’ha, è di chi la rende sua. E quanto siamo brave, noi.
Perché quando, camminando, sentiamo un colpo di tosse, ci guardiamo dietro e aumentiamo il passo. Perché stringiamo il telefono in mano e le chiavi in tasca. Perché cambiamo strada se da lontano vediamo un’ombra che non ci piace, e ormai, da sole, non ci piace mai nessuno.
Apriamo il portone e lo chiudiamo subito alle nostre spalle, accertandoci che non si riapra. Entriamo. Un messaggio di avviso: casa.
È andata, non è stato nulla di che neanche oggi.
Stefania Malerba
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