EVE ARNOLD: scattare con com-passione
In occasione della mostra che si terrà a Torino dal 25 febbraio all’ 4 giugno presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia ho deciso di parlare di un carattere che mi ha affascinata moltissimo, quello di Eve Arnold, che ha saputo bucare l’obiettivo anche stando dall’altra parte.
È molto probabile che nella tua vita abbia incontrato una foto di Eve Arnold senza neanche saperlo.
È quello che è successo a me un giorno mentre tornavo a casa: ho visto un cartolina con una bellissima foto di Marilyn Monroe al mare in una posa molto naturale, un po’ diversa dalle solite. L’ho presa e ho continuato a camminare.
Tornata a casa, voltandola, ho scoperto fosse relativa alla mostra di una fotografa che (per mia ignoranza) non avevo mai sentito nominare.
L’ho googlata ed ho subito capito avesse qualcosa da dirmi.
Eve nasce in una famiglia ebrea poverissima nei primi anni del 900 e si trasferisce in America per sfuggire alle persecuzioni.
Ormai sulla trentina inizia la sua attività da fotografa, partecipando ad un corso di fotografia. Le prime foto che presenta vengono giudicate negativamente e ridicolizzate.
Lei però non si dà per vinta e fa quello che qualsiasi donna bianca medio borghese farebbe in un periodo in cui la discriminazione razziale è ancora forte: si reca ad Harlem, quartiere afroamericano all’epoca in stato di degrado, per immortalare qualche attimo della sfilata di moda organizzata ogni domenica nella chiesa.
La consegna data dal corso era proprio quella di scattare foto di moda. Negli anni 50 questo significava set preposti, foto patinate e studiate nei minimi dettagli, pose plastiche e ovviamente modelle bianche. Lei invece sceglie una rappresentazione totalmente alternativa: le sfilate di protesta di Harlem.
Inizialmente la sua presenza è ingombrante e rende difficile creare un ambiente naturale e disteso. Quello non è il suo posto e giustamente non è accolta con tutto il calore del mondo.
Gli scatti con grande sorpresa sono bellissimi: realizzati nel back stage, in un atmosfera poco illuminata e con modelle in pose scomposte.
Le foto sono apprezzatissime dal docente del corso, meno dai giornali di moda americani: immagini di moda fuori dagli schemi dell’epoca in tutti i sensi, nulla di pubblicabile.
Le manda in Inghilterra, dove invece verranno pubblicate da una rivista, attirando l’attenzione della Magnum Photos.
Eve diventa così la prima donna fotografa ad entrare a far parte di quell’agenzia, portando un contributo unico. Lo si vede chiaramente se si vanno a confrontare gli scatti di Marilyn della Arnold con quelli degli altri fotografi Magnum.
La donna conosce Marilyn ad una festa, che spavalda la invita a scattare con lei, senza capirne il pericolo. Le foto che Eve realizza di Marilyn sono intime e la ritraggono in tutta la sua fragilità umana. La seducente femme fatale viene totalmente obliata da un’immagine più quotidiana ed umana. Eve la guarda con gli occhi di un’amica e non di un adulatore.
Negli scatti degli altri fotografi Magnum, la Monroe ammicca, seduce e recita. In quelli di Eve legge, si stravacca sul divano, pensa.
Altro episodio della sua storia che mi ha lasciato totalmente sorpresa è l’incontro con Malcom X, un personaggio controverso nella lotta per i diritti degli afroamericani, soprattutto nella prima parte del suo attivismo politico.
Egli si unì infatti al movimento The Nation of Islam, che predicava la supremazia nera sugli oppressori bianchi.
Eve ebbe l’occasione di scattare alcune foto in occasione di una convention nazionale a Washington, dove si riunirono non solo i membri della comunità, ma anche alcuni esponenti del partito nazista. La strana accoppiata era stata portata da un obiettivo comune: spartirsi l’America.
Alla convention gli esponenti nazisti sono seduti in prima fila.
Quando Eve alza la telecamera per scattare la foto questi le sussurrano «I’ll make a bar of soap out of you» cui lei risponde «As long as it isn’t a lampshade» e continua a scattare.
Non si tratta solo di una battuta: lei è veramente ebrea in un periodo in cui non conveniva esserlo. Eppure senza timore o vergogna risponde così.
Lei stessa confessa di non aver avuto paura neanche quando, passeggiando per Harlem con Malcom, la folla urla «Kill the white bitch!» e quando si trova la schiena piena di bruciature di sigarette buttatele addosso.
«My son once asked me how I reacted to those vears of intimidation. Had I been frightened? angry? vexed? The question surprised me. I had been none of these during the entire period – from research to finish. All of it seemed expected to me. I had undertaken a difficult and possibly dangerous story and it was my job to get it done».
-Eve Arnold
Il suo progetto è qualcosa di più grande: sa che per lo scatto perfetto è necessaria collaborazione.
Dietro ai ritratti di Eve emerge l’emozione e il pensiero della persona fotografata.
Eve non vuole parlare al posto di nessuno, lascia che il soggetto si apra e parli da sé.
La chiave del suo lavoro, con qualsiasi persona -da Marilyn all’allevatrice di cavalli in Mongolia- è empatizzare e poi scattare.
La fotografia è il modo in cui Eve comunica e fa esperienza del mondo. Forse anche l’unico modo che le permette di esorcizzare alcuni traumi:
«Themes recur again and again in my work. I have been poor and I wanted to document poverty; I had lost a child and I was obsessed with birth; I was interested in politics and I wanted to know how it affected our lives; I am a woman and I wanted to know about women.»
– Eve Arnold
Eve riflette sul mondo, lo scruta e lo rincorre instancabile fino a cogliere proprio quel momento di verità.
La disperazione al bar di un bordello, i primi attimini di vita di un bambino, lo stress e il disagio di uno dei volti più conosciuti al mondo.
Immortalare non a caso, significa perpetuare nella memoria.
«It’s the hardest thing in the world to take the mundane and try to show how special it is.»
– Eve Arnold
Sofia Seghesio
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