Il mondo del lavoro? L’incubo delle nuove generazioni, “anguille” precarie e sottopagate
Questo articolo-sfogo parte dall’ennesimo post pubblicato dal boomer di turno che recita la logorante litania “i giovani di oggi non vogliono lavorare”.
E allora, io, neolaureata alle prese con il mondo del lavoro, una bolgia infernale di sfruttamento, precariato e paghe da fame, non posso tacere.
“Gli sfaticati giovani di oggi” stanno vivendo uno stato di crisi multiple in cui tra pandemia, cambiamenti climatici, inflazione, guerra e crisi umanitaria, energetica ed economica, la parola d’ordine è “incertezza”. Ci troviamo su un terreno sdrucciolevole che si sgretola ogni giorno di più sotto i nostri piedi, lasciandoci a penzoloni sul vuoto.
Non siamo pigri, non siamo disinteressati, non siamo esageratamente frignoni. No, siamo spaventati e disillusi per il nostro futuro i cui contorni si fanno via via più labili.
Una delle ragioni del senso di instabilità che ci sta paralizzando e scoraggiando è proprio la precarietà lavorativa.
La principale differenza tra vecchie e nuove generazioni è che queste ultime non sono più disposte ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare, sia perché le condizioni sono spesso insostenibili sia perché abbiamo capito che il benessere psicologico viene prima di quello economico.
Diciamolo francamente: il mondo del lavoro oggi è fatto su misura di chi ha già gli agganci giusti per accedervi.
Chi non li ha, rimane schiacciato dal sistema; un sistema obsoleto e inadeguato che ci vuole infallibili, solleciti, in costante competizione e disposti a scendere a qualsiasi compromesso, a svenderci per stipendi che a malapena ci consentono di fare la spesa.
Pensiamo alla retorica tossica perpetrata da molte testate giornalistiche sui laureati in tempi record o sui lavoratori dotati di un sovrumano spirito di sacrificio. Ne abbiamo due esempi freschi: la studentessa di Medicina che non dorme la notte per studiare e la bidella pendolare da Napoli a Milano.
Aggiungiamo pure un altro caso recente: quello della laureata in Ottica e Optometria che ha vinto il concorso da netturbina.
Queste storie ci sono state presentate come motivi di vanto e di trionfo, ma a ben guardare sono amare sconfitte.
Da quando laurearsi è una gara a chi fa prima, arrivando addirittura a privarsi del sonno?
È normale che una persona debba trascorrere le proprie giornate su un treno, perché dove vive non si trova lavoro e dove lavora l’affitto è sproporzionato rispetto allo stipendio?
O ancora, è accettabile vanificare anni di studi, spese e sacrifici?
NO: in uno Stato in cui il primo comma dell’art. 1 della Costituzione sostiene che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, il lavoro dovrebbe essere un diritto garantito e protetto.
Ma in Italia, il lavoro è fondato perlopiù sul nepotismo e sullo sfruttamento. La tanto decantata “gavetta” spesso e volentieri non è un altro che uno stratagemma subdolo per spolpare fino all’osso giovani ingenui e gettarli via quando non servono più.
Perché spesso dopo la gavetta non c’è nulla ad attenderci, se non la deludente constatazione di aver perso tempo, energie e fiducia nella possibilità di raggiungere una stabilità lavorativa e, quindi, economica.
Nel privato, le assunzioni sono impantanate, i contratti a tempo determinato e i salari miseri. Nel pubblico, i posti sono pochi, i tempi di attesa tra un bando e l’altro sono biblici e le modalità concorsuali farraginose.
Il costo della vita aumenta in maniera inversamente proporzionale alla speranza di essere assunti e/o di ricevere uno stipendio dignitoso.
Non meravigliamoci, allora, se i giovani non riescono a lasciare casa dei genitori e non vogliono mettere su famiglia (in questo caso per le donne la situazione si complicherebbe ulteriormente)… con quali soldi e con quali presupposti?
I datori di lavoro lamentano la carenza di personale, ma invece di puntare il dito contro i giovani fannulloni, si sono interrogati sul motivo? Le offerte di lavoro sono al limite della legalità: chi cerca personale che non superi un certo limite di età e non abbia vincoli familiari e coniugali; chi propone 500 euro al mese per un lavoro full time con orari indecenti; chi offre stage non retribuiti o contratti “atipici”; chi impiega dipendenti in nero; chi cerca personale giovane con esperienza pluriennale (e già qui si instaura in contraddizione), ma con uno stipendio da stagista: lavori del genere danno dignità all’uomo?
Quella di noi appartenenti alle generazioni Y e Z è una presa di posizione contro quel sistema che ci vorrebbe iperperformanti e remissivi per sottometterci al gioco. Ci hanno insegnato a produrre, produrre e ancora produrre come se fossimo macchine, ma restiamo pur sempre umani.
A differenza delle generazioni precedenti, i cui standard di vita sono per noi un miraggio, abbiamo capito quanto sia importante la “work-life balance” ed è per questo che è in costante crescita il fenomeno del Great Reshuffle.
Sono cambiate le priorità: oggi si chiede maggiore flessibilità e attenzione alla qualità della vita, anche perché i sogni e gli obiettivi non sono solo quelli professionali.
Appena ho messo piede fuori dall’università, l’impatto con il mondo del lavoro è stato traumatico, sia perché l’ambiente accademico non “allena” al post laurea, sia perché il mercato, soprattutto per una laureata in Lettere, è chiuso ed elitario. E come me tanti altri miei coetanei, a prescindere dalla facoltà intrapresa.
Siamo privi di punti di appoggi stabili, trascinati in balia di venti sfavorevoli che spirano da tutte le parti.
Noi vogliamo lavorare, ma vogliamo anche garanzie, diritti, compensi giusti e possibilità di crescita professionale. In poche parole: siamo stanchi di essere sfruttati.
Per le generazioni precedenti, questi argomenti potrebbero apparire privi di senso. Tuttavia, bisogna tenere conto delle drammatiche circostanze attuali.
In Italia:
lo stipendio medio dei lavoratori è diminuito dal 1990 (dati Openpolis e OCSE);
1 lavoratore su 4 entro i 40 anni ha uno “stipendio da povero” (Acli-IREF);
il tasso di disoccupazione è al 7,8% (Istat);
quasi 3 milioni di lavoratori sono irregolari (Istat).
Non si possono continuare a ignorare questi dati allarmanti.
Aumentare gli investimenti pubblici sull’istruzione e la ricerca potrebbe essere un punto di partenza.
Cosa siamo noi giovani del terzo millennio? “Anguille”.
Giusy D’Elia
Illustrazione di Sonia Giampaolo
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