Ucraina a fuoco: un anno dopo
A poco più di un anno di distanza dall’invasione russa in territorio ucraino, ci troviamo a contemplare lo stesso panorama, spaventoso e incerto, di dodici mesi fa.
Questa storia la conosciamo, ne parlano i media, ne parlano i politici, ne parla l’Europa intera e ne parla il mondo. Eppure la conosciamo troppo poco.
C’è una data di inizio, che quest’anno malauguratamente ha celebrato il suo primo anniversario: 24 febbraio 2022, giorno in cui la Russia con il suo esercito ha violato la sovranità di un altro stato, l’Ucraina, andando contro gli accordi internazionali e dando inizio a quello che auspicava sarebbe stato un conflitto breve.
A nulla valsero le parole di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e degli altri leader europei, che condannarono, in forme più o meno esplicite, le manie di grandezza di Putin.
Nei palazzi del potere si susseguono le mosse dei giganti della politica mondiale e si riconfermano le alleanze: da una parte, Vladimir Putin e Wang Yi, che vantano un rapporto “solido come una roccia”, dall’altra, Joe Biden in visita a Kiev e poi Volodymyr Zelenskyj che continua a chiedere armi, sostegno e ancora armi.
Intorno, tutto il resto dei paesi, occidentali e non, in attesa.
In mezzo, al fronte, esposti, ci sono loro, i soldati, stanchi, costretti, rassegnati, chissà se mai sono stati convinti, stremati, abbattuti, morti.
Io non so parlare di guerra, non so scriverne.
Lo lascio fare a chi ne sa più di me, a chi ha notizie più certe, a chi ha il coraggio di andare a investigare sul campo, a chi ne ha la possibilità.
Io non so parlare di guerra, ma la sofferenza parla da sé.
È trascorso un anno e ieri, 5 marzo, è stata fatta esplodere la prima super bomba: 1.010 kg di esplosivo ad alto potenziale.
È trascorso un anno, da quel conflitto che si auspicava dovesse essere breve, rapido, quasi intangibile.
Quello che si auspicava, in realtà, non era tanto la brevità del conflitto, quanto l’assenza dello stesso.
Si auspicava l’assenza dei soldati sulle linee di confine, costretti a combattere e a scappare da altri soldati, nell’aspetto così vicini a loro, e spesso anche nelle idee, senza avere la libertà di poterle esprimere ad alta voce, e neanche sussurrarle, a un compagno o in famiglia, perché le pareti hanno orecchie e in guerra nessuno è al sicuro.
Si auspicava l’assenza delle esplosioni, dei frastuoni, degli allarmi e delle grida. Così come si auspicava l’assenza delle vittime, di qualsiasi età, di qualsiasi etnia, di qualsiasi ideologia, che non importa più a nessuno e che non avrebbe fatto male a nessuno, almeno fino a quel 24 febbraio di un anno fa.
Invece oggi le vittime non si contano più.
L’Ucraina non ha il tempo per piangere i suoi morti, così impegnata a cercare di non doverne seppellire altri. La Russia fa lo stesso.
Non c’è vincitore, non c’è vinto. Non c’è futuro, non c’è libertà.
La guerra imperversa e non si sceglie se continuare a combattere, semplicemente si combatte.
C’è chi combatte per invadere e conquistare, dicono, e chi combatte per difendere. Ma alla fine, tutti combattono per difendersi, e basta.
Si conquistano città, si bombardano teatri, si spara sulla folla senza identificare l’obiettivo, solo perché qualcosa si muove, come si trattasse di un animale in una giornata di caccia. La stessa freddezza, la stessa determinazione, non la stessa paura.
E tra i colpi, le divise, le urla di chi fugge e il silenzio lasciato da chi è già stato costretto ad andar via, tra le vie mezze vuote, le case crollate, l’elettricità staccata che non illumina più, cosa rimane?
La guerra è nata per un obiettivo, eppure l’obiettivo, a chi combatte sui campi di battaglia, non interessa, alla maggior parte di loro per lo meno.
L’obiettivo di un essere umano dovrebbe essere quello di stare al mondo, nel migliore dei modi, e generalmente il più a lungo possibile, poi dipende. Ma dovrebbe essere questo, soprattutto se si tratta di giovani, sani, spensierati, ora impauriti e costretti a una crudeltà che nessuno insegna a scuola e a cui non ci si abitua e non ci si dovrebbe abituare.
L’obiettivo dovrebbe essere uscire con gli amici, giocare una partita di pallone, andare al mare e vedere un tramonto. Dovrebbe essere finire i compiti per il giorno dopo, superare un esame difficile, scegliere cosa mangiare a pranzo o dove andare fuori a cena. Dovrebbe essere trovare un lavoro, adottare un cane, stare con la propria famiglia o fantasticare di crearne una nuova.
L’obiettivo dovrebbe essere una banale e noiosa normalità.
E non quella persona che respira davanti a me, con una divisa mimetica, un fucile carico a coprirne il terrore, la pelle chiara e gli occhi di un colore così simile a quello di mia mamma, e al mio.
L’obiettivo fa paura. L’obiettivo ha paura. E anche la guerra fa paura.
In Ucraina si combatte, mentre noi guardiamo i servizi al telegiornale, leggiamo qualche trafiletto sui quotidiani e ascoltiamo ogni tanto un podcast di approfondimento, quando succede qualcosa di rilevante.
Non è una guerra già abbastanza rilevante? Non lo è il numero delle vittime? O il vuoto che lascia?
Come ci riesce facile far finta di niente, come riesce facile a tutti, a me. D’altra parte cosa cambierebbe? Come ci riesce facile continuare a vivere quando la crudeltà si consuma lontano da noi, anche se così lontano non è.
Non è una bella storia questa, non porta a nulla di buono, e tra protagonisti affranti, ma che si fanno vedere in pubblico forti e pieni di risorse, e comparse che, così come entrano in scena, tanto rapidamente spariscono, tra il sangue e la disperazione, si celebra il primo anniversario di terrore sul territorio ucraino.
E di questa storia, la cui fine doveva essere vicina, e ancora non si vede, noi siamo solo testimoni. E anche piuttosto disattenti.
Stefania Malerba
Illustrazione di Luca Grassi
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