Il Decameron di Pasolini è la storia di un sogno
Un film vivo, preso dalla gioia di vivere, del fare l’amore.
Il Decameron di Pier Paolo Pasolini è un sogno che guarda a Sud e a Oriente, guarda al Mediterraneo, al grande mare salato.
Vuole dire dieci giornate, le dieci giornate, in cui dieci giovani raccontano ciascuno una novella al giorno per un totale di cento. Quando ho visto il Decameron la prima volta, da allora, ho cominciato ad inseguire tutte quante le tracce di quella storia, di quelle giornate. Forse perché, in parte, la sentivo anche come la mia. La mia storia. La mia giornata.
C’è dentro la mia Napoli e l’immagine che ne restituisce supera tutti quanti i cliché da cui il poeta si è lasciato sedurre, ancor prima di conoscere la città, per cui prova ancora un mix tra fascino e paura.
Pier Paolo Pasolini è preso dalla Napoli della poesia dialettale, della musica, della canzone e del teatro di Eduardo, con cui il poeta di Le ceneri di Gramsci ha intessuto un profondo legame amicale.
È la storia di un’attrazione. “Non sono io che ho scelto il Decameron, ma è il Decameron che ha scelto me.” Il Decameron racconta la vicenda di dieci giovani che, per sfuggire alla peste del 1348, si ritirano in una villa di campagna, dove trascorrono dieci giornate narrandosi vicendevolmente delle novelle per ingannare il tempo.
Il messaggio che il Boccaccio vuole renderci è la necessita di un’apertura laica della morale familiare e sociale, rivolta alla classe dirigente cittadina, all’aristocrazia e alla gran borghesia. È, ancora, una dedica alle donne, affinché nella lettura delle novelle esse possano trovare un antidoto alla noia e alle pene amorose.
Pasolini, con Decameron, si propose di esaltare i valori della corporeità e della vitalità sessuale. Il commento musicale del film, che si richiama a melodie della tradizione napoletana, fu elaborato dallo stesso Pasolini con la collaborazione di Ennio Morricone. Anche in Decameron come in tutti i film di Pasolini gli attori sono in gran parte non professionisti, tra i professionisti ricordiamo Ninetto Davoli, che è Andreuccio e Franco Citti, Ciappelletto.
Nei dialoghi è utilizzato il dialetto napoletano. “Ho scelto Napoli”, dirà Pasolini, “perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire”.
I ragazzi che sciolgono la brigata ritornando in città sono la fine della storia. Boccaccio nelle vesti di narratore di primo grado scrive nel proemio e chiude l’opera tirando il succo del discorso che ha fatto.
Si gira: è il 31 agosto del 1970. Pasolini non ingentilisce la realtà, la rappresenta senza mutarla. Pasolini non esclude, non nasconde nulla, neanche ciò che può disturbare, infastidire. Un magma vulcanico in continuo divenire, con una coerenza di fondo che non viene mai a mancare.
“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?”, si chiede il pittore nell’ultima inquadratura del film, prima che compaia all’improvviso – così come improvvisamente si passa da una novella all’altra – la parola “fine”.
Francesca Scotto di Carlo
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