La storia del corno portafortuna
Sono campana, ma per chi come me vive un po’ ai confini o in altre province, Napoli resta una sorta di Terra di mezzo, un non luogo, un frutto della fantasia, un luogo mistico da agognare e poi contemplare.
Mi rendo conto possa sembrare una descrizione quasi eccessiva, eppure Napoli, la sofferente Parthenope, tuttora – ai miei occhi da donna – resta sempre un miraggio, una meta irraggiungibile tale è la sua varietà e la sua complessità.
Pizza, mandolino, sole, mare, Caruso, Carosone, Sofia Loren, Capri, Ischia, Procida (…), ma la città alle pendici del Vesuvio è tanto di più. Napoli non è solo eccletticità; è arte, è tradizioni, è storia, è historia, nella sua accezione originale (il termine fu coniato da Erodoto nel 5°sec. A.C.) e cioè “ricerca, indagine, cognizione”.
Come ogni grande città che ha fatto la storia, il capoluogo campano si evolve, si maltratta, si migliora, impara a conoscersi e ad amarsi per quel che è: “(…) un paradiso: tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi.”, così la definì Johann Wolfgang von Goethe.
Una terra piena di tutto e in essa la contraddizione di tutto.
La sua cultura ha inevitabilmente bagnato tutte le altre province e continua a spingersi ancora oltre, anche oltreoceano. In assoluto uno dei simboli della napoletanitá nel mondo è il corno portafortuna, o corno napoletano che dir si voglia. A casa mia è dietro ad ogni porta (affiancato dal ferro di cavallo), ciondolante in ogni auto o come amuleto in qualche tasca di pantaloni o nel portafoglio.
«Essere superstizioso è sintomo di grande ignoranza, ma non esserlo porta male», diceva il buon Eduardo De Filippo ed è un po’ questo il mantra di noi meridionali – sia mai che qualcuno ci dica “beat* te” che subito partono tutti gli scongiuri necessari contro il malocchio.
Il simbolo del corno ha delle radici ben lontane: esso è diffuso in tutte le civiltà e culture, e già nel 3500 a.C. – in epoca preistorica – gli uomini appendevano all’entrata del loro rifugio delle corna di animale come augurio di prosperità, potenza e di fertilità.
Ma è in epoca romana che il corno prende dei “tratti” più marcati, fino ad acquisire in toto il fallo di Priapo, il dio della prosperità. Esempi, tuttora visibili, sono a Pompei ed Ercolano: la prima raffigurazione su affresco murale di Priapo – col pene eccezionalmente dotato sia per dimensioni che per lunghezza – campeggia all’ingresso della Casa dei Vettii.
Per arrivare al curniciello partenopeo – come noi oggi lo conosciamo -, bisogna attendere il Medioevo.
In Italia, e soprattutto a Napoli, si comincia a lavorarlo usando il corallo (le prime testimonianze della “pesca” e della lavorazione di corallo a Torre del Greco risalgono ad oltre 500 anni fa), già ritenuto magico perché in grado di scacciare il malocchio dalle donne incinte.
Altra caratteristica propiziatorio è il colore rosso, che riprende il sangue e il fuoco, simboli di potenza e vita.
Veniamo, però, alla “regola” da rispettare per fare in modo che l’oggetto funzioni: quest’ultimo deve essere ricevuto in dono; una volta ricevuto va “azionato”: colui il quale regala, deve pungere con la punta del corno il palmo aperto della mano sinistra di colui il quale riceve.
E se la punta del corno si rompe? Una volta saturo di tutte le energie negative, il corno si rompe. Ha semplicemente svolto la sua funzione, la rottura è la sua fine, l’unica fine possibile e necessaria.
Antonietta Della Femina
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