La straordinaria storia di Lucy Salani
«Sono stato bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere stata sempre me stessa».
Con queste parole si è descritta Lucy Salani, l’unica donna trans italiana ad essere sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, attivista, poetessa e donna straordinaria.
Lucy Salani nasce nel 1924 a Fossano, in provincia di Cuneo, in una famiglia antifascista di origini emiliane che, negli anni Trenta, torna a vivere a Bologna. I suoi genitori le danno il nome Luciano, un nome che non ha voluto cambiare neanche dopo aver preso coscienza della propria identità di genere. Lo considerava “sacro” proprio perché erano stati i suoi genitori a sceglierlo.
Eppure, i rapporti con la sua famiglia non sono stati tra i più felici.
Lucy cresceva come un ragazzino che tutti consideravano “strano”. Preferiva giocare con le bambine, mentre i maschietti le facevano paura; le piaceva cucinare, pulire, giocare con le bambole. Più cresceva, meno i suoi fratelli tolleravano la sua presenza e i rapporti con i suoi genitori si facevano difficili.
Lucy si definiva un ragazzo omosessuale, ma si rendeva conto di essere diversa non solo dalla sua famiglia, ma anche dai suoi amici, altri ragazzi gay che conosceva e frequentava. Vedeva in loro una mascolinità che a lei mancava, si rendeva conto di percepirsi con un aspetto diverso. Una volta chiese a sua madre: «Quando eri incinta di me, sentivi di stare per avere un maschietto o una femminuccia?». La reazione della madre fu violenta: «Ho un figlio che non sta bene, ho un figlio che è una vergogna».
Lucy sapeva già di essere una donna, ma non aveva gli strumenti per capire quale fosse la sua condizione. Non aveva mai sentito parlare di disforia di genere.
Frequentava i suoi amici in segreto e con paura. Quando venivano scoperti, nel migliore dei casi erano botte. Lucy ha raccontato che, a volte, succedeva che arrivassero ragazzi nuovi che si avvicinavano a loro con gentilezza, facendogli credere di voler condividere dei bei momenti. Finivano invece per picchiarli e, molto spesso, per umiliarli e torturarli. Lucy ha raccontato di essere stata fortunata ad aver preso solo due schiaffoni, perché a un suo amico rasarono la testa a zero e gli impiastrarono il sedere di catrame bollente. Loro erano impotenti, non avevano modo di difendersi. Non avevano tutele né dalla legge, né dalla famiglia che li ripudiava.
Quando nel 1943 fu chiamata in servizio dall’esercito fascista si dichiarò omosessuale per sfuggire alla leva, ma non fu creduta e fu costretta ad arruolarsi. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 disertò e tornò a Bologna, ma temendo di mettere in pericolo la sua famiglia, abbandonò la clandestinità per unirsi all’esercito nazista. Ma Lucy non riusciva a vivere nell’esercito. Disertò ancora e tornò a Bologna dove iniziò a prostituirsi. Fu durante un incontro con un cliente tedesco che la polizia fece irruzione nell’albergo in cui lavorava e l’arrestò, scoprendo anche la sua diserzione. Fu rinchiusa nella cantina di un casolare vicino Padova, dalla quale riuscì a scappare, ma fu ricatturata poco tempo dopo e imprigionata nel carcere di Bologna e poi trasferita in quello di Modena, nel quale rimase fin quando non fu portata a Verona per essere processata dai tedeschi.
Condannata a morte, chiese la grazia ad Kesselring, comandante delle forze tedesche in Italia, che gliela concesse per la sua giovane età. Infatti, Lucy aveva appena vent’anni. La sua condanna fu tramutata in lavori forzati in un campo di lavoro a Bernau. Era un’enorme fabbrica, nella quale era costretta a lavorare, portando carichi pesantissimi, per tutta la giornata. Senza sosta, senza paga. Ancora una volta, non vide altra alternativa che scappare. Arrivò in treno fino al confine tra l’Austria e l’Italia, ma qui fu scoperta e catturata.
Fu così deportata al campo di concentramento di Dachau, in quanto disertrice dell’esercito tedesco, e contrassegnata con il triangolo rosso .
L’orrore che ha visto in quel campo è difficile da descrivere, da comprendere.
Appena oltrepassò il cancello, sulla destra vide un uomo, in piedi su uno sgabello di legno, con un cappio al collo. Se fosse riuscito a rimanere in piedi tutta la notte, sarebbe vissuto, ma se fosse caduto dallo sgabello sarebbe morto. La mattina dopo, l’uomo era morto. In quel campo, Lucy ha incontrato la disperazione, la fame, il disprezzo. Rimase a Dachau dal novembre del 1944 all’aprile del 1945. Il suo compito era mettere una targhetta con il numero identificativo ai cadaveri di chi era morto durante la notte e caricare i corpi su u carro. Nessuno di loro aveva un nome, solo un numero.
Il 29 aprile del 1945 le truppe statunitensi entrarono nel campo di Dachau.
I soldati tedeschi fecero la conta dei prigionieri e poi iniziarono a sparare loro addosso. Lucy fu ferita a una gamba e svenne. Furono i cadaveri degli altri a proteggerla. Infatti, tra i cadaveri, i soldati americani la trovarono, priva di sensi, e la portarono in salvo.
Lucy Salani ha visto con i suoi occhi come l’essere umano possa diventare una belva terribile, ha vissuto sulla sua pelle tutta la malvagità degli uomini. Ma l’esperienza traumatica ha solo accresciuto in lei la voglia di vivere. Tornata a Bologna, decise di non sprecare quella seconda vita che le era stata concessa. Ha girato il mondo con la sua auto, lavorando come tappezziera e frequentando ambienti trans e di cabaret.
Anche lei amava indossare abiti femminili, ma lo faceva con paura, in privato o negli ambienti che sentiva sicuri; non credeva possibile vivere in pubblico come una donna. Fu una sua amica a convincerla. «Voglio farti vedere come sei», le disse. E la vestì, la truccò e Lucy finalmente si vide riflessa nello specchio come era sempre stata. Prese la sua decisione e, negli anni ’80, si trasferì a Londra per sottoporsi all’operazione di riattribuzione del sesso.
Lucy è morta a Bologna, il 22 marzo 2023, a novantanove anni.
Lucy Non si è mai tirata indietro ogni volta che le è stato chiesto di raccontare la sua storia, nonostante il dolore, consapevole dell’importanza della propria testimonianza. Sulla sua vita è stato scritto un libro e sono stati girati ben tre documentari, l’ultimo dei quali la segue nella sua casa di Bologna a novantasei anni.
«È impossibile dimenticare e perdonare. Ancora alcune notti mi sogno le cose più orrende che ho visto e mi sembra di essere ancora lì dentro e per questo voglio che la gente sappia cosa succedeva nei campi di concentramento, perché non accada più».
Nadia Rosato
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