Sanità: quando la salute diventa un lusso più che un diritto
L’articolo 32 della Costituzione italiana parla di tutela della salute come «diritto fondamentale dell’individuo […] e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Ma di fronte a ospedali a carenza di personale, liste di attesa infinite e privatizzazione progressiva siamo ancora sicuri che sia così?
Ultimamente mi è capitato d’avere uno scontro ravvicinato con la sanità italiana. Le ore passate tra ospedali e visite hanno praticamente equiparato quelle di una settimana di lezione. Queste 18/20 ore di corso intensivo sulla sanità pubblica e privata mi hanno messo davanti agli occhi tante cose su cui sino a poco tempo fa non avevo mai riflettuto.
Partiamo col dire che non sono ricca, ma sicuramente sono benestante: ho un tetto sulla testa, due genitori con un lavoro fisso, pago un affitto, la spesa e le bollette e posso frequentare l’università senza grossi problemi.
Non sono mai stata privata di nulla, soprattutto sul fronte della salute. Tra pubblico, e molto più spesso privato, ho sempre ottenuto tutte le cure necessarie e persino qualcuna in più (ad esempio l’apparecchio, per ragioni quasi totalmente estetiche).
Trovandomi negli ultimi tempi ad avere un problema persistente e dalle cause ignote ho iniziato una trafila di visite private, a botta di 150€/180€, cercando una soluzione.
Le visite si sono moltiplicate. I farmaci costavano sempre di più. Il problema non scompariva.
Dopo una spesa così ingente, non essendo per fortuna nulla di urgente o grave, ho deciso di proseguire la cura nel pubblico.
Ci sono però persone che la mia fortuna non ce l’hanno, per cui una spesa anche solo di 50€ non è una sciocchezza e che spesso rinunciano alle cure mediche.
«Nel 2021, la spesa sanitaria direttamente a carico delle famiglie è stata pari a 36,5 miliardi, con un aumento in media annua dell’1,7% osservato nel periodo 2012-2021 (+2,1% dal 2012 al 2019); la spesa era scesa a circa 34 miliardi nel 2020, ma è poi risalita nel 2021, tornando ai livelli del 2019».
Questo quanto affermato da Cristina Freguja, direttrice della Direzione centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat.
Di fronte a dati simili e allo sviluppo delle tecnologie sanitarie, non è difficile immaginare di qui a due o tre anni un ulteriore incremento delle spese a carico della popolazione.
Non si sente più parlare di emergenza sanitaria, se non in riferimento ad eventuali memoriali per le vittime di Covid o per la riapertura di casi sulla gestione della pandemia.
Eppure la pandemia ha ancora conseguenze e strascichi sul piano organizzativo ed efficienza del servizio. Tutti gli interventi, le visite ed annessi che sono stati posticipati sino al 2021, intasando totalmente il sistema sanitario, non in grado di rispondere alla richiesta di cure. L’attesa si è dunque prolungata per riuscire ad accedere a qualsiasi servizio, compresi gli interventi chirurgici. Per le operazioni d’emergenza come quelle tumorali tuttavia si richiede un intervento rapido, circa di 30 giorni nel 90% dei casi.
A questa difficoltà se ne aggiungono poi molte altre.
Ad esempio, è comune che molti ospedali pubblici “chiudano” alcuni reparti per far quadrare i conti, passando così da un’attesa media di 45 a una di 60 giorni per una risonanza al ginocchio, da 58 a 71 per un’ecografia all’addome, da 69 a 79 per una colonscopia.
Le liste di attesa ormai diventate eterne sembrano essere la principale causa che spinge chi può a rivolgersi al privato. I centri privati hanno così finito per sostituire il pubblico in moltissimi servizi, acquisendo sempre maggiore potere e influenza. Per accedere ad alcuni servizi attraverso la mutua in ospedali privati è necessario che si effettuino precedentemente delle visite a pagamento. Questo innesca ovviamente un meccanismo di dipendenza dal centro e una quasi obbligata tassa aggiuntiva per poter godere di un servizio che altrimenti sarebbe quasi totalmente gratuito.
Insomma, questa storia della gratuità dei servizi sanitari e dell’equità, indipendentemente dalla condizione economica, inizia un po’ a puzzare di vecchio.
E chi non può permettersi 150€ di ginecologo? Le alternative sono poche: si tratta di attendere o molto più spesso di coprire il problema con cure farmacologiche, degli strumenti costosi e spesso non risolutivi.
Aggiungerei in ultimo che, alle presenti difficoltà economiche, si sommano anche pregiudizi di tipo morale e poca formazione su temi tabù. Questo emerge in modo molto evidente nella situazione dell’aborto, così come per altre malattie o sindromi legate all’apparato femminile quale l’endometriosi, il vaginismo, la vulvodinia. Per anni le donne hanno sofferto dolori invalidanti senza che nessuno riuscisse o volesse indagarne l’origine, come se fosse da normalizzare o comunque qualcosa di cui non si potesse parlare per decoro. Viene spontaneo chiedersi perché le emorroidi siano considerate argomento decoroso ma le ovaie no… ma in fondo la risposta già la conosciamo.
Una speranza per nuovi finanziamenti la offrono i famosi fondi del Pnrr che a partire da quest’anno verranno a mano a mano indirizzati sulla base di due componenti: la prima Reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale; e la seconda Innovazione, ricerca e digitalizzazione del servizio sanitario nazionale.
Ciò che si teme però è che i finanziamenti si concentrino solo sulla ristrutturazione degli edifici e poco su cosa c’è all’interno.
Uno dei principali problemi oltre alla mancanza di fondi è la mancanza di organico specializzato: sempre più medici vanno in pensione e sempre meno vengono reintegrati. Il che in certi casi porta anche a restare senza medico di base.
Come afferma Luciano Pletti, vicepresidente vicario della Card (Confederazione Associazioni Regionali di Distretto) è che «È chiaro che a queste innovazioni strutturali e fisiche va ora affiancata una revisione organizzativa, cosa non semplice in un paese in cui il patrimonio umano e professionale si è progressivamente impoverito. Per questo la parola d’ordine, ora, è ‘personale’».
Pletti ritiene anche necessario che ad un reintegro di personale si debba accompagnare un nuovo sistema formativo che «deve riguardare, anzitutto, il livello gestionale, prima ancora di quello operativo».
Secondo l’esperto uno dei problemi fondamentali da risolvere è anche la capacità di coordinazione dei reparti.
La parola d’ordine sembra dunque essere edificare a 360 gradi: dalla struttura al personale lavorativo.
Nel mentre rimane evidente che la situazione sia diventata ingestibile e che si debba portare maggiore attenzione sull’argomento prima che sia veramente troppo tardi. Abbiamo già vissuto una situazione di emergenza sanitaria, con tutte le paure e i disastri che comporta. Non lasciamo che accada di nuovo.
Sofia Seghesio
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