E non siamo forse tutti complici di femminicidio?
Nel 2022 in Italia sono stati registrati 319 omicidi, di cui 125 nei confronti del sesso femminile.
Si parla di quasi il 40% del totale.
Sui 140 episodi che hanno avuto luogo in contesto domestico, 103 hanno colpito una donna.
Ho scoperto che esistono addirittura due termini per definire in maniera non neutra gli omicidi, e le altre manifestazioni di violenza o maltrattamento, contro le donne: femmicidio e femminicidio.
Entrambi fanno riferimento all’aggressione contro una donna per ragioni non estranee alla natura stessa del soggetto, in parole povere, ci si riferisce alla violenza contro una donna in quanto tale, perché donna.
È un atto di violenza spesso preceduto da vessazioni di carattere economico, fisico, sessuale o psicologico.
Si tratta essenzialmente di gesti, non per forza estremi, ma dettati dalla volontà di opprimere, abusare, violentare, mettere in discussione e rimarcare disuguaglianze che i tempi correnti tentano arduamente di superare.
Per tornare ai due termini, questi si sono diffusi in Europa a partire dal XXI secolo, a seguito dei gravi avvenimenti di Ciudad Juárez. La città messicana, nel 1993, era stata il macabro sfondo di numerose scomparse e uccisioni di donne. A questo, si era aggiunto il sorgere di movimenti di protesta e lotta femminista, soprattutto in America Latina.
Ma è solo nel 2007 che ci si riferisce agli «assassinii nei confronti di donne» avvenuti in Messico e America Centrale con il nome di femminicidio, e si presenta l’occasione per discutere del ruolo che l’Unione Europea ricopre nella lotta al fenomeno.
Entro nel dettaglio.
La parola femmicidio deriva dall’inglese femicide e fu utilizzata per la prima volta dalla criminologa Diana Russell nel 1992. In un articolo, l’autrice faceva riferimento a «omicidi contro donne in quanto donne». Oltre all’assassinio, dunque, si evidenziava la volontà di sopraffazione, la necessità di imporre sé stessi e la propria supremazia.
Il femmicidio trova culmine con la morte della vittima, ma non si limita a questo. Nell’atto finale, anzi, si spegne.
Prima di questo, si presenta la frustrazione, il misoginismo e il desiderio di potere, attraverso una serie di pratiche sessiste di vario genere, perpetuate da un uomo che si impone in quanto uomo, così animale e così poco uomo, nel dover ribadire continuamente la sua natura di dominatore.
Femminicidio, invece, deriva dallo spagnolo feminicidio, e si centra sugli aspetti sociologici della violenza e sulle sue implicazioni a livello politico e sociale. A utilizzarlo per la prima volta fu l’antropologa messicana Marcela Lagarde nel 2004, parlando della condizione femminile nel paese.
Anche questo, rappresenta la forma ultima e estrema di violenza contro una donna, che avviene a seguito della perpetuazione di condotte misogine, quali violenza fisica, psicologica, sessuale, economica, familiare, comunitaria, istituzionale… L’ho già scritto, ma non lo ripeto a caso.
Rientrano in questa categoria tutte le azioni che mirano a porre le donne in una condizione di subordinazione e dunque di rischio, culminante nel tentativo di omicidio, o in altre forme di morte violenta o indotta: suicidi, incidenti e maltrattamenti, fisici e psichici, che le istituzioni non sono in grado, o non si interessano, di prevenire.
Non è l’atto in sé, ma il ripetersi dell’atto come di un rituale, comunemente accettato come qualcosa che puntualmente può accadere. Come le eclissi. Ogni tanto, succede. E la possibilità che succeda, quindi, si mette in conto.
L’omicidio di una donna, a quanto sembra, può ancora essere paragonata a un evento con scadenza periodica, inevitabile nella sua ciclicità.
Peccato che, a differenza delle eclissi, non è per niente bello da vedere.
Stefania Malerba
Foto di copertina: illustrazione di Alice Gallosi
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