Su una gamba sola: la musica che salvò la vita di Oliver Sacks
“Senza musica non potrei mai riuscire a vivere”, scriveva la poetessa Edna St. Vincent Millay nel 1920, in una lettera ad un amico.
Mezzo secolo dopo, in un luminoso pomeriggio d’estate, il neurologo e scrittore inglese Oliver Sacks avrebbe sperimentato come questo sentimento possa essere ben più di una drammatica iperbole.
Nel suo meraviglioso libro di memorie Su una gamba sola, il Dottor Sacks racconta di un’esperienza estrema che gli capitò di vivere nel 1974 in cima ad una montagna norvegese, “in un pomeriggio di particolare splendore, con l’aria e la terra unite in una grande cospirazione di bellezza e serenità”, lontano chilometri da ogni traccia di essere umano; un’esperienza in cui l’unica cosa che si mise tra lui e la morte… fu la musica.
Quella mattina, il Dottor Sacks si mise in marcia di buon’ora, risalendo lungo il ripido crinale di un fiordo: “Sabato 24 cominciò con un tempo grigio e nuvoloso, ma c’era chiara la promessa di una schiarita nel pomeriggio… non vedevo l’ora di cominciare la mia passeggiata”.
Sacks si trova a camminare ben presto a più di mille metri d’altezza, incantato dai nodi di radici che spuntano dal terreno e dalla minuscola vegetazione che affolla i sentieri. La foresta si fa fitta e poi, all’improvviso, scompare. Sulla cima del fiordo, c’è una gigantesca spianata e, con grande sorpresa del dottore, un recinto sormontato da un cartello ancora più sorprendente: “Attenzione al toro”, a cui faceva seguito un inquietante disegno di un uomo travolto da una bestia cornuta.
Il cartello era così assurdo, e il pensiero di un pericoloso toro che vivesse lì su così ridicolo, che Sacks pensò si trattasse di uno scherzo di quelli giù al villaggio e proseguì senza esitare. Non era affatto preoccupato dalla sua lontananza dal mondo abitato, anzi, sentiva quella solitudine come una libertà, la possibilità di essere testimoni soli della meraviglia. E poi, qualcosa ruppe la sua splendida solitudine:
“Ero appena riemerso da una fitta nebbia, e stavo camminando attorno ad un masso grosso come una casa, con il sentiero che curvava tutt’intorno e non mi permetteva di vedere dritto di fronte a me: fu proprio questa impossibilità di vedere avanti che permise l’incontro. Praticamente mi schiantai contro un enorme cosa che sedeva nel mezzo del sentiero, anzi, lo bloccava totalmente. La cosa aveva un’enorme testa cornuta, un maestoso corpo bianco e una faccia calma e lattea, che però cambiò totalmente quando si girò verso di me […] Quella faccia si gonfiò talmente tanto che credetti stesse per coprire l’intero universo, con gli occhi cattivi e iniettati di sangue. Divenne prima un mostro, poi il diavolo in persona”
Preso dal panico più totale – il più pericoloso sentimento che un essere umano possa provare – il dottor Sacks si gira e si precipita giù per il sentiero, volando tra le radici e le rocce e la nebbia, finché non riesce più a distinguere i suoi passi concitati e quelli del toro dietro di lui – ci sarà ancora? Sarà rimasto lì nel mezzo del sentiero? Sacks non lo sa, ma continua a correre e corre con un terrore così cieco che non si accorge forse di una roccia, o di un fosso, o del suo stesso piede. Inciampa, e senza sapere come si ritrova sul fondo di un piccolo crepaccio, con la gamba orrendamente piegata sotto il peso del suo corpo e un dolore al ginocchio che mai si sarebbe immaginato di poter provare.
In un attimo, il panico cede il posto alla lucidità del medico che studia un caso affascinante: la gamba gli giace davanti, immobile e inutilizzabile, ma gli cade addosso la consapevolezza che, a quell’altezza, non può sopravvivere al freddo della notte. Deve tornare al villaggio, duemila metri sotto di lui, o morirà.
Con un ottimismo irragionevole ma necessario, Sacks si ritrova a pensare: “Fortunatamente, non ho danneggiato nessun’arteria principale, nella caduta. Non mi sono fratturato la schiena né rotto la testa. Ho tre arti sani, e con questi metterò su la battaglia della vita, per la mia vita. Dio, se lo farò!”
Con una forza – fisica e mentale – impossibile da comprendere al di fuori di quelle circostanze estreme, Sacks si trascina sulle braccia attraverso la foresta, un ruscello e innumerevoli ripidi sentieri. Ad un certo punto, la forza sembra venirgli meno, cade su di lui una stanchezza quasi dolce, tentatrice. Eppure, il dottore sa che, se cederà, rimarrà lì dov’è, e morirà. In suo aiuto, allora, con il tempismo che solo le cose che salvano davvero hanno, qualcosa giunge in suo aiuto. La musica.
Sacks prende a cantare. Si dà il ritmo, così che non si trascina più lungo il sentiero ma, stando alle sue stesse parole, si musica giù per la strada. Dapprima si sussurra marcette imparate nell’infanzia, poi si mette a cantare con forza le parole Ohne Haste, ohne Rast! Ohne Haste, ohne Rast! (“Senza fretta, senza riposo!”), mutuate da Goethe: “Mai le parole del genio furono messe più a buon uso!”.
“Non pensavo più ad andare di fretta o più lentamente. Ero nella musica, e il suo ritmo aiutava il mio. Il battito che si generava in me era perfettamente accordato, e tutti i miei muscoli sapevano rispondere nella giusta maniera. D’altronde, non lo disse anche Nietzsche che, quando ascoltiamo la musica, dobbiamo ascoltarla con tutti i nostri muscoli? Io ero un’orchestra, e trovai anche che la mia condizione spirituale era notevolmente migliorata. Avevo ritrovato la speranza.”
Nel frattempo, ogni tanto Oliver getta un’occhiata alla sua gamba immobilizzata alla meglio, rotta, storta, spezzata, e si fa strada in lui l’immagine di un violino che aveva avuto da bambino, e che era andato distrutto in un incidente. Sentiva per quella gamba la stessa apprensione e, all’improvviso, la stessa affezionata malinconia che aveva provato allora per quell’oggetto.
Appena dopo il tramonto, mentre ancora cantava senza sosta la sua marcia interiore, sebbene stremato, fu finalmente avvistato da due cacciatori che tornavano al villaggio, e soccorso.
Durante i lunghi giorni all’ospedale, con davanti a sé un lungo e doloroso percorso di riabilitazione, ma tutto sommato vivo – vivo! – Sacks chiese una sola cosa agli amici che accorsero al suo capezzale: un registratore ed una cassetta: il Concerto per Violino di Mendelssohn. Perché la nuova battaglia da vincere, ora, era far suonare di nuovo quello strumento spezzato del suo corpo.
E la musica, ancora una volta, l’avrebbe salvato: avrebbe fatto di lui un’orchestra, di nuovo.
Marzia Figliolia
Vedi anche: Protobodhisattva, i Cani e l’indie made in Italì