Gender equality: tra lavoro e salute la parità è ancora lontana
L’Italia è ancora lontana dal raggiungimento della parità e recentissimi dati lo dimostrano. Che sia in ambito lavorativo, sanitario o di vita privata c’è ancora molto lavoro da fare.
Di entusiasmo e di buona disposizione nei confronti del raggiungimento della parità di genere si parla sempre di più, ma con le parole ci facciamo poco.
I dati parlano chiaro: le donne sono ancora fortemente svantaggiate sotto l’aspetto di vita quotidiana, cura della loro dimensione privata, lavoro e possibilità di crescista e soprattutto salute.
Innanzitutto analizziamo il Gender equality index, il rapporto dell’Istituto europeo per la gender equality che fotografa nei 27 stati dell’UE in merito alla parità di genere. Lo studio sintetizza in un unico dato le performance di 31 indicatori che indicano: lavoro, salute, denaro, conoscenza, tempo e potere.
L’Italia, nel rapporto 2022, si colloca 14esima con 65/100 di punteggio totale, poco sopra Cipro, Malta, Bulgaria, Estonia o Grecia.
I due indicatori più bassi per il nostro paese sono quelli del lavoro e del tempo.
In ambito lavorativo il punteggio è del 63,2% su 71,76% di media europea. L’indicatore racchiude aspetti come la partecipazione (impiego a tempo indeterminato e durata della vita lavorativa), la segregazione delle donne a lavori educativi, di cura e sociali e la prospettiva di crescita.
Per quanto riguarda il tempo libero l’indicatore evidenzia come le donne una volta, tornate a casa dal loro lavoro retribuito, debbano occuparsi anche di lavori di cura (figli e faccende domestiche) spesso senza ricevere alcun tipo di aiuto dalla controparte maschile. Proprio per questo l’Italia si posiziona al sestultimo posto su scala europea (59,3% su 64,9%). Come riportato dal rapporto Care work and care jobs for the future of decent work dell’International Labour Organization, ad occuparsi dei famigliari con disabilità o anziani sono soprattutto le donne.
L’associazione Valore D sottolinea invece il tempo impiegato a occuparsi di lavoro domestico da parte delle donne corrisponde a 5 ore e 5 minuti, per gli uomini a un’ora e 48 minuti al giorno.
A darci altri dati è poi il World Economic Forum con il Global Gender Gap Report 2022, dove sulla base di un’analisi di 33 paesi che rappresentano il 54% della popolazione mondiale in età lavorativa, la percentuale di tempo trascorso dagli uomini in un lavoro non retribuito rispetto al tempo trascorso nel lavoro totale è del 19%. Un terzo della quota di tempo che le donne trascorrono in lavori non retribuiti (in proporzione al totale lavoro), che è del 55%.
Certo è che alcuni stati come l’Italia e la Spagna, che da parte loro potrebbero sollevare le famiglie da una parte di questo lavoro attraverso sostegni economici, fanno ben poco.
Tra i paesi più virtuosi troviamo tutti quelli del Nord come la Danimarca, ma anche la Francia e i Paesi Bassi. Regno Unito e Germania, che inizialmente erano rimasti un po’ indietro sono riusciti a recuperare.
In materia di deduzioni fiscali in Francia è possibile dedurre fino a 7500€ per le spese delle scuole materne, per la Germania fino a un massimo di 4000€. In Spagna si possono dedurre il 10% delle spese di custodia dei bambini sotto ai tre anni, poco ma meglio di nulla.
Nel Regno Unito a partire dal 2017 lo stato eroga 15 su 30 ore settimanali di free caregiving (ovvero servizio di cura gratuito). La Danimarca come già detto si staglia sul panorama come la migliore: dal 70% al 100% dei costi per gli asili coperti dallo stato a seconda del reddito.
E in Italia? Nel nostro paese è possibile detrarre il 19% delle spese del nido ma con un tetto massimo di spesa di 630, si tratta dunque al massimo di 120€ all’anno (detrazione non cumulabile col bonus di 1500 per il nido).
Ritornando al Gender Equality Index, l’Italia si difende solo sul fronte sanitario con un punteggio di 89 rispetto agli 88,87 in media dell’Ue, soprattutto per l’accesso al servizio nazionale.
Tuttavia non bisogna cantare vittoria troppo presto, moltissimi servizi esclusivi e funzionali per gli uomini non ricevono la stessa attenzione per la controparte femminile.
La questione ha radici molto profonde che vanno ricercate nella storia di come la medicina si è sviluppata. L’uomo nelle ricerche scientifiche o nei test è da sempre considerato lo standard, la base sulla quale affidare il progresso medico, confidando che per la donna non cambi poi molto. Peccato che così non sia e di esempi concreti nella storia clinica ce ne sono a bizzeffe. Nel campo delle neuroscienze, ci sono un numero inferiore, ad esempio, di studi sul cervello femminile in merito a funzionamento e comportamento, perché si è sempre ritenuto che gli ormoni ovarici incidessero sulle ricerche, fornendo risultati molto variabili. Lo stesso si riscontra anche nel campo della fisiologia, della farmacologia e dell’endocrinologia.
È interessante anche analizzare lo studio del 2020 del The Italian Journal Gender-Specific Medicine condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Modena e del Reggio Emilia che ha indagato le malattie cardiovascolari. Sebbene le donne vengano meno colpite, il tasso di mortalità si presenta più alto. I sintomi differenti nelle donne spesso sono causa di ritardi nelle diagnosi e dunque nell’inizio della terapia. Secondo uno studio pubblicato sul The New England Journal of Medicine, lo donne avrebbero 7 volte più probabilità di essere dimesse durante un infarto o in generale ricevere una diagnosi errata proprio per mancanza di studio dei sintomi femminili. Le donne con meno di 50 anni hanno perciò il doppio delle probabilità di morire di infarto.
Come detto il Gap si percepisce anche a livello farmacologico. Secondo uno studio condotto dall’Università di Torino infatti la maggior parte dei farmaci sono testati su uomini di 70 chili. Conseguentemente i dosaggi faranno riferimento a individui con quelle caratteristiche e con quella capacità di metabolizzazione, che tuttavia non corrisponde a quella femminile.
I ritardi nella diagnosi e le spese mediche per le donne si alzano notevolmente in presenza di problematiche legate all’apparato riproduttivo o ad annessi.
Per quanto possa stupire infatti nelle classi di medicina la vulvodinia, l’endometriosi e le malattie del pudendo di cui ora si parla molto sono ancora poco (spesso per nulla) studiate.
Le ragioni ovviamente stanno nel taboo enorme che sovrasta la zona genitale della donna e tutti gli stereotipi di isteria che la accompagnano.
Tuttavia penso risulti ovvio a tutti che una sindrome come la vulvodinia, di cui soffre secondo recenti studi il 16% della popolazione degli USA, non sia qualcosa di iniquo e poco rilevante.
Per patologie come l’endometriosi gli studi dimostrano che siano necessari in media 10 anni per ricevere una diagnosi. Un tempo molto lungo in cui la donna passa da una clinica ad un’altra (spesso private) sborsando non pochi quattrini.
La Gender Health Gap rappresenta dunque una violazione quotidiana al diritto alla salute stabilito nell’art. 32 della Costituzione italiana.
In un mondo in cui molti paesi, tra cui il nostro, si ergono a paladini dell’uguaglianza e si fanno bellissimi discorsi sull’inclusività, forse sarebbe anche il caso di prendere esempio dai paesi del Nord e mettere in atto delle politiche che possano realmente contare qualcosa.
L’uguaglianza, o anche solo una sua vicina parente, in Italia non è ancora stata raggiunta. I dati parlano e di fronte ad essi non c’è alcuna giustificazione.
Sofia Seghesio
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