Patrick Zaki e Giulio Regeni: fratelli per la libertà
Era il 7 febbraio del 2020 quando gli agenti dei servizi segreti egiziani prelevarono Patrick Zaki, da poche ore atterrato in Egitto, ritendendolo una minaccia per la sicurezza nazionale.
Da quel giorno, la lotta per la sua liberazione non ha avuto tregua, fino alla sentenza, giunta pochi giorni fa, dal tribunale della sua città natale, Mansura, che condannava il giovane ricercatore a tre anni di carcere – altri 14 mesi di reclusione – e alla grazia, concessa dal presidente Adbel Fattah al Sisi. Tutto è cambiato in 24 ore.
Poi il volo per Malpensa, con destinazione Bologna.
In Egitto, c’erano ad aspettarlo le donne della sua vita, fidanzata, sorella e migliore amica, e i genitori, a pregare per lui. In Italia, c’era un paese intero in attesa. In Piazza Maggiore, una grande festa e la sua pergamena di laurea, conseguita online il 5 luglio, oggi tra le sue mani.
“Voglio rivedere tutti i miei colleghi dell’università, i miei compagni, voglio riabbracciare i miei amici” aveva detto Patrick a poche ore dalla grazia, e adesso sente di avere tutto il tempo del mondo, e di non volerne sprecare neanche un secondo.
Davanti a sé, le nozze con la fidanzata Rény, la ricerca universitaria e la lotta per i diritti umani.
Patrick non è solo e il suo pensiero è andato subito a tutti quei giovani che, come è stato lui, sono ancora prigionieri nelle carceri egiziane, sospettati – e un sospetto può bastare – di aver diffuso notizie false o di non aver rispettato le norme del regime.
Negli ultimi giorni che hanno visto Patrick protagonista di una esplosione di gioia e stupore, non sono mancati i riferimenti a un altro giovane ricercatore, il cui volto domina ancora gli enormi manifesti gialli, calati sulle facciate di molti comuni italiani.
Il suo nome è Giulio, e purtroppo non ha bisogno di presentazioni.
Sequestrato e massacrato fino alla morte, Giulio Regeni fu ritrovato senza vita i primi di febbraio del 2016 lungo la strada tra Il Cairo e Alessandria. Accusato di essere una spia, ha subito da morto la stessa crudeltà a cui è stato sottoposto da vivo. Nonostante i tentativi di depistaggi e le ombre gettate sulla vicenda, l’indagine avrebbe portato la Procura di Roma ai quattro responsabili del rapimento e della morte, mai resi disponibili per l’Italia dall’autorità egiziana. La vicenda è ancora aperta.
“Ci vuole la giustizia, serve giustizia anche per Giulio Regeni” ha detto Patrick, riportando alla mente un murale apparso a Roma qualche tempo fa, che ritraeva Patrick e Giulio, chiusi in un abbraccio, offuscati dalla minaccia di un’ombra incombente. “Stavolta andrà tutto bene” diceva Giulio. È andata bene.
Uniti nello stesso destino di ricercatori a cui viene negato il diritto alla libertà di espressione, e alla libertà stessa, Patrick e Giulio sono due facce della stessa medaglia. Sono la tenacia e la sofferenza, sono la determinazione e la paura, sono la forza e il dolore, sono la vita e la morte.
Patrick è la vita, che abbraccia la morte di Giulio tanto da farla anche sua, perché lui, da quella privazione della libertà che l’ha visto prigioniero, smagrito, rassegnato, maltrattato, debole, allo stremo, ne è uscito. Giulio no.
Giulio è rimasto nel buio, nascosto come chi ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare, un criminale, una spia, ucciso come chi non era e come nessuno dovrebbe essere. Giulio è morto, non per errori di valutazione e non per la sicurezza del regime.
Giulio non ha avuto una scelta. C’è chi ha scelto per lui, che avesse visto abbastanza, viaggiato a sufficienza, sorriso il necessario, che non meritasse una domanda, una spiegazione, un confronto. C’è chi ha scelto per lui, e per lui ha scelto la morte.
Giulio è morto perché era un ragazzo che credeva in quello che studiava, nel potere delle parole, nell’importanza di cercare risposte. Giulio è morto perché ha superato confini che dovrebbero essere cancelli da aprire, e non barriere da buttarsi addosso a vicenda. Giulio è morto perché aveva coraggio, quel coraggio che non ha avuto né chi lo ha ammazzato né chi ne ha coperto l’assassinio.
Giulio è morto perché è nato in un paese in cui la libertà di espressione è un diritto sancito dalla Costituzione, la più bella del mondo. Mentre in altri paesi, questo diritto non solo non esiste, ma si converte in un dovere: il dovere di tacere. È il dovere di girarsi dall’altro lato, o non girarsi affatto, di coprirsi gli occhi e tapparsi la bocca, perché altrimenti potrebbe essere qualcun altro a farlo, e di accettare le regole e le imposizioni, per vivere bene, o almeno per vivere.
Giulio è morto perché era la democrazia. E, come la democrazia, non deve essere lasciato morire.
Giulio vive dentro la forza di combattere, dentro le pareti delle università e le voci di chi non si ferma. Giulio vive in Patrick, egiziano come chi l’ha ucciso, ma coraggioso come tutti dovremmo imparare ad essere, nel suo sorriso ampio e negli occhi commossi.
Giulio vive nell’abbraccio della vita con la morte, perché nulla vale più di sapere che quello, che pensiamo ci appartenga, potrebbe venire meno da un momento all’altro: la libertà, la vita stessa.
Giulio vive.
Stefania Malerba
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