Il mondo del work non è mai stato così in progress
Negli anni post pandemia, gli effetti del cambiamento non si sono visti solo su di noi.
Abbiamo assistito, infatti, anche all’introduzione di una serie di parole nuove, soprattutto di origine inglese, nel lessico del mondo del lavoro.
Il nuovo vocabolario ha preso piede tra i più giovani, a partire dalla piattaforma di diffusione TikTok e, da lì, il fenomeno non si è più arrestato, tanto da rendere visibili in tutta Europa i risultati di un nuovo gergo dell’ambiente professionale.
Nonostante il nostro paese sia uno tra i più vecchi a livello europeo, con un rapporto anziani-giovani che raggiunge quasi il due a uno, pare che sia proprio in mano ai giovani la possibilità di cambiare la percezione del contesto lavorativo – spesso stagnante, e a volte tossico – in cui la maggior parte dei lavoratori si trovano a destreggiarsi.
L’obiettivo è quello di contrastare la hustle culture cioè la cultura dello stacanovismo e del “rimango a lavorare fino a tardi” o “questo finisco di guardarlo a casa” della generazione precedente.
Il principio alla base del nuovo vocabolario è che il lavoro rappresenta una porzione della vita, ma non la vita stessa, e che, per salvaguardare la propria salute mentale, e i rapporti con gli altri, è bene sapere come scindere ciò che è dovere da ciò che dovere non è, e non deve diventarlo.
I maggiori mutamenti della società passano dal linguaggio: ecco qualche esempio.
Cominciamo con l’espressione act your wage cioè lavora adeguando lo sforzo allo stipendio percepito, svolgendo un impegno commisurato al salario, sempre più spesso ridotto. A questo proposito, si parla di working poor, includendo in questa definizione tutti coloro che, pur lavorando, non guadagnano a sufficienza per vivere in condizioni dignitose.
Su simili principi si basa anche il concetto di bare minimum mondays cioè non permettere alla malinconia post fine settimana di infierire sui fatidici lunedì di rientro a lavoro, facendo solo ciò che non si può rimandare. Tutto il non imprescindibile può aspettare il martedì, per una settimana lavorativa (o lavativa?) che non cominci con eccessivo stress.
Andiamo avanti.
Meno avventati, e forse fedeli, dei nostri predecessori, noi giovani siamo soliti praticare il career cushioning, che altro non è che un “cuscinetto di carriera”, consistente nel cercare alternative prima che sia troppo tardi, guardandosi intorno per attitutire quella che potrebbe essere una brutta e inaspettata caduta.
Nella ricerca di questo cuscinetto, pare si possa avere un approccio piò o meno sereno. Non sereno è il rage applying, cioè la situazione in cui i lavoratori, sentendosi trascurati, sottopagati e poco apprezzati, si dedicano all’invio rabbioso e frenetico del proprio curriculum ad altre aziende, un po’ come faceva Zerocalcare in una puntata della serie Netflix.
Procediamo.
Una volta atterrati in un nuovo emisfero lavorativo, si può subire lo shift shock, ciò che si prova nel momento in cui si cambia lavoro, ma questo poi non risponde alle aspettative che, come sappiamo, aiutano solo se ignorate.
A questa situazione si risponde in due modi, sempre con parole di origine inglese, che ci piacciono tanto dopo meeting, call e aperitif: boomerang employee cioè ritorno al precedente lavoro e resenteeism, stato di risentimento e infelicità generato da una situazione da cui non ci sembra di poter uscire. In entrambi i casi, sembra che proprio benissimo non vada.
Meno “agitate” sono, invece, le tre situazioni che seguono, nelle quali, alla rabbia, si preferisce il silenzioso fluire delle cose.
Due facce della stessa medaglia sono il quiet firing e il quiet hiring cioè licenziamento e assunzione silenziosa. Nel primo caso, il datore di lavoro prepara l’allontamento volontario, seppur forzato, del dipendente, rendendo la sua presenza indesiderata e l’ambiente così ostile da spingerlo alle dimissioni, senza liquidazione. Nel secondo caso, si tratta semplicemente di una nuova distribuzione del lavoro tra i dipendenti già assunti, a cui vengono affidate mansioni che spetterebbero a un nuovo assunto, invisibile come la liquidazione precedentemente citata. Massimo risultato, minimo sforzo. Ma per chi?
Per ultimo parliamo di quiet quitting, ossia abbandono silenzioso, a tutti consigliato, soprattutto se vicini al pensionamento. Non ha valenza negativa, se non per i datori-sfruttatori, ma è legato all’idea di fare lo stretto necessario per non perdere né i capelli nè il lavoro e avere tempo da dedicare a persone, animali e cose fuori dalle mura dell’ufficio.
Dopo questo breve repertorio lessicale, a noi la scelta. Siamo giudicabili come una generazione di pigri con poca voglia di lavorare o come persone che chiedono che sia dato il giusto valore al proprio impegno?
Per chi ci giudica viziati rimarremo certamente tali, per gli altri forse saremo illuminati e coraggiosi. In ogni caso, almeno qualcuno in più potrebbe essersi fatto un’idea su quello di cui, con tanti strani ing e ism, stiamo parlando.
Stefania Malerba
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