Kintsugi: riempire le crepe con l’oro
A gennaio 2023 ho iniziato un master in editoria a Milano; la paura, il timore, l’ansia di non essere all’altezza tante volte hanno bussato alla mia porta, ma ora – ancora incredula – ho terminato questo percorso.
Io ed i miei 24 colleghi abbiamo presentato al Salone del libro di Torino tre libri: un romanzo, una silloge poetica ed un saggio.
Tre generi diversi per tre autori diversi; diversi i loro interessi e diverse le loro anime. Chiaramente per indole mi son subito sentita vicina all’autrice della silloge poetica: E non è un caso di Eloisa Battista. Un esordio per una donna appassionata e profonda come un oceano. Abbiamo curato l’editing, la correzione bozze, l’impaginazione e la copertina. Come “copertura” del suo testo abbiamo scelto uno sfondo bianco e verde, con crepe d’oro: un esempio di kintsugi.
È stato un progetto che mi ha colpito da subito; era un’immagine che rappresentava a pieno l’animo delle poesie. Delle crepe si, ma delle crepe “accettate”, accentuate, non rinnegate; delle crepe sparse, incerte, ma non lamentate.
“Non c’è natura che non ritorni a se stessa,
desiderio pungente di vita
feroce calamita.
Abbracciammo senza domani
questo piccolo essere
raggrumato sillabario
di bocche e di mani.”
Da E non è un caso, Eloisa Battista, pagina 44
Non conoscevo l’autrice e non conoscevo questa pratica, ma grazie ai miei colleghi mi si è aperto un mondo al riguardo. Ed ora condividerò con voi ciò che ho imparato…
Cos’è il kintsugi?
La leggenda narra che la tecnica kintsugi sia stata inventata intorno al XV secolo, quando Ashikaga Yoshimasa, ottavo shogun dello shogunato Ashikaga, dopo aver rotto la propria tazza di tè preferita la inviò in Cina per farla riparare. Essa venne riparata con legature metalliche poco estetiche; deluso, il suo proprietario decise di ritentare la riparazione affidandola ad alcuni artigiani giapponesi, i quali sorpresi dall’attaccamento dello shogun alla sua tazza, decisero di trasformarla in gioiello riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro.
Da allora il Giappone visse un periodo artistico molto florido, che favorì la diffusione di questa pratica…una pratica non solo materiale, ma anche e soprattutto spirituale, una pratica che ha profonde radici nella filosofia Zen; partendo dal wabi-sabi – una visione fondata sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione delle cose – sono tre i concetti in essa sviluppati:
Mushin (letteralmente senza mente) che esprime la capacità di “lasciare correre”, dimenticando le preoccupazioni;
Anitya (letteralmente impermanenza) che simboleggia l’esistenza transitoria, l’accettazione dell’inizio e della fine di tutto;
Mono no aware che rappresenta l’empatia verso gli oggetti, e l’accoglimento della loro decadenza, di pari passo con il saper cogliere la bellezza in ciò che non è più nuovo.
Ben più di ciò che si potrebbe immaginare, quindi; il kintsugi ci insegna a non buttare ciò che si rompe (oggetti e rapporti) in quanto la rottura altro non potrebbe essere che una fase, uno stato momentaneo, uno stadio verso una “fine” più preziosa; le fratture, le cicatrici possono divenire preziose se si decide di avere insegnamenti da esse.
È resilienza. È crescere, impreziosirsi anche dopo aver ricevuto dolore, anche dopo aver visto il proprio corpo frantumarsi. È essere in costante evoluzione, è splendere facendo passare la luce dalle feritoie.
Antonietta Della Femina
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