Sport ed inclusività: a che punto siamo?
Umberto Eco una volta disse che: “La bellezza del cosmo è data non solo dalla unità nella varietà, ma anche dalla varietà nell’unità.”
Ciò per dire che il cosmo è bello perché vario ma che, nonostante ciò, siamo tutti uguali perché esseri vivi e senzienti. E come tali, abbiamo tutti uguali diritti e doveri, senza distinzione di sesso, orientamento, provenienza e religione.
Di tali inclusioni ne parla ampiamente il diversity management, che comprende un insieme di pratiche vòlte a valorizzare la diversità all’interno di un ambiente di lavoro, andando a supportare diversi stili di vita e rispondendo alle loro differenti esigenze.
Questa maggiore integrazione e rispetto verso le diversità è fondamentale anche per l’employer branding, che non solo migliora l’immagine dell’azienda in termini di performance ma contribuisce allo sviluppo di un ambiente dove tutti si sentono a proprio agio e stimolati, dove le persone percepiscono meno stress e lavorano meglio.
Inoltre, promuovere e valorizzare tali diversità mette in luce punti di vista, idee ed esperienze differenti: così facendo, si va a supportare l’innovazione e il cambiamento.
Questi concetti si possono mettere in pratica anche nello sport, ambito che di certo non è esente da discriminazioni che vanno certamente combattute.
Una delle principali problematiche dello sport è quella del gender gap, vale a dire il divario tra i generi non solo economico ma anche dal punto di vista delle cariche ottenute, e del numero di donne che è ancora troppo inferiore rispetto a quello degli uomini.
Basti pensare che, se si prende in considerazione la sola platea dei tesseramenti delle federazioni sportive, dei quasi 5 milioni di tesserati le donne occupano solo il 28%, le allenatrici non arrivano al 20% mentre le dirigenti di società sportive e di federazioni sono al di sotto del 15%.
Senza contare che le atlete donne hanno una retribuzione inferiore in tutti gli sport rispetto ai loro colleghi maschi; al di là che sia un club o uno sponsor, si ha questa tendenza a snobbare le atlete in quanto non hanno una sufficiente copertura mediatica.
L’unica disciplina che ha abbattuto questo divario economico, dopo lunghe battaglie, è stato il tennis che ha reso i montepremi degli slam paritari per tornei maschili e femminili.
Altro passo avanti è quello del calcio femminile, che non solo il mondiale a loro dedicato verrà trasmesso sulla Rai in prima serata, ma la Serie A è diventata una professione a tutti gli effetti da quasi 1 anno.
Affinché le donne abbiano maggiori opportunità in ambito sportivo, all’inizio degli anni ’80 è nato il Coordinamento Donne Uisp, così da promuovere la pratica sportiva e i diritti delle donne nello sport, sia amatoriale sia agonistico.
Nel 1985, grazie al lavoro di molte donne sportive e non solo, la Uisp – Unione Italiana Sport per tutti – ha presentato la “Carta dei diritti delle donne nello sport”, una Carta che nel 1987 venne fatta propria dall’Assemblea legislativa europea.
Tale documento riportava alcune importanti raccomandazioni e princìpi, evidenziando l’enorme divario tra lo sport maschile e femminile, andando a risaltare come le donne avevano meno spazi e minori opportunità. Infatti, all’interno della Carta si manifestava la differenza nel riconoscimento economico, nell’accesso agli spazi e agli impianti sportivi, nelle sovvenzioni e sponsorizzazioni.
Sono state apportate anche delle modifiche al documento originale, facendo così nascere la “Carta europea dei diritti delle donne nello sport”, che va a rivolgersi a tutti gli organi competenti in ambito sportivo, atleti compresi, oltre ai gruppi di tifosi e alle istituzioni europee.
Il principale scopo è quello di incentivare pari opportunità tra uomo e donna all’interno dello sport, e va ad affrontare diverse problematiche senza limitarsi alla denuncia, ma cercando delle pratiche per diminuire le discriminazioni verso le donne nello sport.
Una maggiore inclusione all’interno dello sport bisogna averla anche nei confronti della disabilità: benché a livello motorio e sociale porti grandissimi benefici nella persona, ancora oggi la pratica sportiva per le persone disabili è complicata da attuare.
Si iniziò a parlare di sport per disabili nel 1948 in Gran Bretagna, grazie a Sir Ludwing Guttman, direttore del centro di riabilitazione motoria di Stoke Manderville.
Guttman vide l’occasione di far svolgere attività sportiva alle persone con disabilità: infatti, grazie allo sport, i suoi pazienti paraplegici cominciarono a sviluppare la muscolatura delle braccia e delle gambe, ottenendo risultati maggiori rispetto a quelli ottenuti con le tradizionali tecniche di riabilitazione utilizzate.
Nello stesso anno si svolsero i primi giochi di Stoke Manderville per atleti disabili, mentre nel 1960 le competizioni per disabili approdarono alle Olimpiadi di Roma.
Per quanto concerne la pratica sportiva a livello agonistico per disabili intellettivi e relazionali, si sviluppò nel 1968 negli Stati Uniti.
In Italia, invece, la cultura dello sport per disabili si è sviluppata negli anni seguenti, come testimonia il ddl 2212 (Ravazzolo, 1997), in cui si favorisce lo sviluppo dello sport per disabili.
Purtroppo, per mancanza di mezzi, strutture e personale d’assistenza specializzato, questi incentivi tralasciano una maggiore diffusione della pratica sportiva dilettantistica, importantissima per molti giovani e non solo.
Infatti, uno delle principali difficoltà che un disabile incontra nel fare sport è proprio l’inadeguatezza delle strutture: nella maggior parte dei casi non vi sono attrezzature e luoghi adatti per la pratica delle discipline.
Nonostante l’Italia è stato, nel 1979, il primo paese europeo ad emanare una legge che prevedeva l’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici pubblici, ci sono state molte incongruenze all’interno del precetto.
Ad esempio, sono stati presi in considerazione solo le persone disabili in carrozzina, tralasciando le necessità di coloro che hanno disabilità sensoriali e mentali, oppure non erano previste multe o ammende di carattere economico per eventuali ritardi nell’attuare tale legge.
Altra barriera che una persona disabile potrebbe riscontrare è quella che riguarda l’approccio: l’atleta disabile è prima di tutto un cittadino, e come tale deve avere a disposizione percorsi adatti alle proprie esigenze.
Anche il razzismo è molto diffuso all’interno dello sport e un esempio di questa discriminazione lo troviamo nel calcio: spesso in questa disciplina vi sono aggressioni di tipo fisico e verbale verso atleti di nazionalità o di origini differenti da quella occidentale, raccogliendo il 12,3% di commenti d’odio solo su Facebook e andando così ad incrementare il fenomeno dell’hate speech – o discorsi d’odio.
Purtroppo, quando vi è un qualcosa di così radicato all’interno della società, è davvero difficile trovare una soluzione che vada a sradicare dei comportamenti così sbagliati e controproducenti ma ciò non significa che delle soluzioni non ci siano.
Fortunatamente ci sono associazioni vòlte a combattere queste barriere, che grazie alla collaborazione con personaggi sportivi e società cercano di sensibilizzare maggiormente le persone ad essere più inclusive e ad azzerare i pregiudizi.
Scendere in piazza per rivendicare i propri diritti è un altro modo per cercare di distruggere queste disparità, affinché vengano create nuove leggi – o modificare quelle già esistenti – così da essere più inclusivi e sereni.
Irene Ippolito
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