Il Cilento: terra di Briganti
Il Cilento, situato in provincia di Salerno, insieme al Vallo di Diano è parte della Lucania, dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.
Terra di ottimo vino, olio di oliva prestigioso, spiagge incantevoli, sentieri montuosi nella natura incontaminata, nonne che potrebbero insegnare a cucinare al trio Cracco, Cannavacciuolo e Bastianich, ma anche terra di Briganti!
Definito già dai sovrani borbonici “focolaio di tutte le rivolte” dal momento che i suoi abitanti erano pronti, in qualsiasi momento, a mettere a repentaglio la stabilità della monarchia, il Cilento è ricordato per i moti del 1828 ma soprattutto per il Brigantaggio postunitario (1861-1870).
I moti del 1828, messi in atto dalla società segreta dei Filadelfi, guidata da Antonio Maria De Luca, trovarono sostegno dalla Carboneria e dalla banda di briganti dei fratelli Capozzoli. Lo scopo dei ribelli era quello di ripristinare la Costituzione del 1820 nel Regno delle Due Sicilie. Il tentativo non ebbe successo e così la sommossa, con i suoi artefici, fu soffocata nel sangue. I fratelli Capozzoli riuscirono a fuggire e rifugiarsi in Corsica ma, l’anno successivo, tornati a Palinuro, furono catturati e fucilati e come se ciò non bastasse le loro teste furono portate in mostra in tutti i paesi circostanti…
Per il Brigantaggio postunitario, invece, dobbiamo procedere lentamente, perché tanto si è detto e tanto si è tenuto nascosto sulla vicenda.
Cosa fu veramente il brigantaggio? E chi furono i briganti? Assassini o patrioti? Delinquenti o resistenti?
Senza alcun dubbio i briganti già derubavano i paesi circostanti a causa dell’estrema povertà ma il brigantaggio postunitario fu la naturale risposta all’invasione armata dei Savoia: aumento dell’imposizione fiscale per pareggiare il disavanzo; leva militare obbligatoria, sottraendo le braccia di lavoro alla terra; tassazione sul macinato, trasferimento del materiale e di intere aziende industriali al nord, esclusivo affidamento dei lavori pubblici agli “invasori”, sostituzione della forte moneta siciliana con la povera banconota piemontese, unificazione del debito pubblico dello stato savoiardo con quello del Regno, confisca ed espropriazione dei beni demaniali ed ecclesiastici e… ed è meglio se ci fermiamo qui.
Tutto ciò causò una vera e propria guerra civile (la legge Pica proclamava lo stato d’assedio). Il popolo, infatti, viveva la nuova situazione come un’occupazione, lontana anni luce da quel senso di unificazione che tanto veniva promosso.
La guerra dei briganti durò più di dieci anni e vide schierate quasi cinquecento bande. La repressione messa in atto dai Piemontesi fu violentissima sin dall’inizio, ma non efficace quanto speravano. Non bastò la metà dell’intero esercito italiano ad annientare i briganti meridionali.
Il nuovo Regno d’Italia inviò i suoi ufficiali di maggior rilievo e con maggior esperienza, come il principe Savoia Carignano, Cialdini, Negri, eppure per molto tempo non riuscì a sottomettere quelle bande, nonostante le decine di migliaia di esecuzioni e la violentissima rappresaglia che coinvolse familiari, amici e compaesani dei combattenti.
Solo nei primi dieci mesi furono fucilati quasi 10.000 briganti o presunti tali; 6 interi paesi furono letteralmente dati alle fiamme (i più noti sono Pontelandolfo e Casalduni) e i suoi abitanti trucidati, senza risparmiare giovani, vecchi e fanciulle; circa 14.000 persone furono imprigionate e la maggior parte, ovviamente, senza processo.
Nel Cilento ci furono diverse bande di briganti, ma la più importante fu quella di Giuseppe Tardio, originario di Piaggine. Giuseppe Tardio, intelligente, astuto, inafferrabile condottiero dei contadini-briganti era il primo di quattro fratelli ed aveva studiato presso il Reale Liceo di Salerno, laureandosi a soli 24 anni in Legge con il massimo dei voti. Il giovane Tardio partì il 18 settembre del 1861, con soli 32 uomini, dal porto di Civitavecchia e nella notte tra il 21 e il 22 settembre sbarcò ad Agropoli. Raccogliendo volontari in qualità di “capitano delle truppe borboniche” promosse e attuò numerose azioni di rivolta antiunitaria in diversi paesi del Cilento: Foria, Camerota, Centola, Celle Bulgheria, Novi Velia, Vallo della Lucania, Laurino, accolto come un eroe da parte della popolazione. Riuscirono addirittura a disarmare a catturare l’intera guarnigione della Guardia Nazionale di Futani.
A Camerota Tardio e i suoi fidati compagni nel luglio del 1862 abbatterono gli stemmi sabaudi, lacerarono una litografia di Garibaldi e frantumarono il busto di Vittorio Emanuele II.
Tra gli affiliati al gruppo di Giuseppe Tardio vi fu Pietro Lucido Rubano, nato a Valle dell’Angelo il 29 maggio 1804, che partecipò alle numerose sommosse organizzate dal brigante. Rubano detto “Ciaraolo” si recò con altri a Centola per porsi a capo di quella banda che aveva partecipato alla reazione borbonica nell’agosto del 1861, e lì fu nominato “capomassa”. L’ultimo scontro avvenne a Caselle in Pittari, dove la banda fu annientata.
Verso la fine del tremendo decennio il Brigantaggio andò perdendo potere e la forza ideale che lo aveva spinto. Le bande rimaste si diedero ad atti di malavita, motivate soprattutto dalla condizione di estrema povertà nella quale erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai suoi abitanti ogni possibilità di una vita dignitosa.
Non semplici criminali, dunque. Non ladri e assassini. Ma contadini, braccianti, artigiani, lavoratori, patrioti e resistenti che stanchi della situazione hanno deciso di combattere e perdere la propria vita per la libertà. Per cacciare lo straniero, per difendere quelle terre che da sempre avevano coltivato e che all’improvviso, da un giorno all’altro, avevano perso… forse per sempre.
Mariangelo D’Alessandro
Vedi anche: Prelibatezze campane: il Fico bianco del Cilento