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“Le Marlboro di Sarajevo” è una lost prayer

Il loro mondo era scivolato via, non c’era più niente da fare, non per chi ne avesse avuto memoria 

(p.93)

Definito il “nuovo Andrić bosniaco” Jergovic con le Marlboro di Sarajevo porta ai lettori un nuovo scenario della guerra di Sarajevo con la bella traduzione di Ljiljana Avirović  pubblicato da Bottega Errante edizioni.

Cos’è Sarajevo se non una brutale guerra, che si manifesta nel ‹‹dettaglio›› come dice Claudio Magris. 

La guerra in questi racconti fa solo da scenografia come una granata, squarcia il mondo dei cittadini nella quotidianità. La quotidianità è correre in attesa di vedere il cielo rosso, 

‹‹come i tetti in fiamme sulle luci di Sarajevo›› si assiste alla caduta di “Troia” ma l’individuo non si scoraggia, continua a correre per le strade in attesa di una vittoria o forse no. 

È il cactus spettatore, la pianta rappresenta la separazione amorosa, muore come l’amore mai nato sotto il gelo di quel mondo che, farà fatica a riprendersi.

Le Marlboro di Sarajevo è il mondo che non tornerà più nel grembo di una madre, è il dolore degli uomini e delle donne, è la perdita della testa sotto il suono dell’arrivo del treno. 

Ogni racconto è una granata che ci fa percepire il mondo che cade a pezzi, è lo stesso mondo che non ha mai smesso di esistere: la guerra continua, magari non a Sarajevo ma più in là, c’è un mondo che urla, che prova claustrofobia in uno spazio aperto. 

È un padre che dice al figlio lontano di stare attento; è Slobodan, la tristezza nella felicità nato il giorno della liberazione di Sarajevo, che chiede ai passanti il loro albero genealogico, orfano dalla vita. 

È un pezzo di pane, è la solidarietà tra vicinati, per un secchio d’acqua in tempi di tristezza, è lo sguardo di un bambino di sette anni che stringe tra le mani una trota. 

La disperazione di una donna che vede la vita mancata in mezzo al fango come un ‹‹vaso vuoto›› mentre la pioggia lava quell’ultimo residuo di dignità di Juraj, è il mondo indifferente alle atrocità. 

Si percepisce, il lettore atterrisce, piange e ride insieme, è grottesco assistere alla storia di Ivo il “comunista”, che non voleva festeggiare il Natale ma i suoi parenti sì.

In guerra ci si chiede: “e ora? Qual è la mia identità?”. Spazza via le certezze, nel Novecento le certezze non si hanno più, tutto al rovescio. 

Jergović con i suoi racconti non vuole tratteggiare la guerra di Sarajevo, tutt’altro, vuole trasmettere la conseguenza. Sarajevo: musulmani, cattolici, atei, un mondo aggrovigliato che, prima di quella guerra, conviveva insieme. 

È il tappeto persiano di Andric (racconti di Sarajevo) sottratto ai Turchi, è la Signorina che egoisticamente pensa ad accumulare il milione durante la Prima guerra mondiale, il silenzio, la paura porta a voltarsi dall’altra parte. 

Le Marlboro di Sarajevo è questo: guardare altrove dalla finestra, è correre con la “valigia” piena di sé e ma. Di un possibile sogno. Illusione. 

Le parole, i rombi, le bombe, entrano con forza nella nostra casa, ecco cosa fa Milijenko Jergović: entra in casa. Lo aveva già fatto con il padre, quel rapporto tra padre e figlio, persi e ritrovati nella memoria.  

“Come, povero Rudo, come si può aggiustare se, ecco, adesso con questi occhi vedo il cielo dove tutti prima vedevano un campanile?” (p.57)

Camminiamo con una valigia pronta in cerca di un nostro Dio. In una tempesta si perde l’ultimo grido e credo, il male falsato dal bene. 

Si prega con la cronaca di Travnik alla sinistra e alla destra con la Bibbia, il bene dov’è? Si intersecano in questo binomio paradossale. È la cronaca di chi?. 

Le sigarette bianche diventano bestemmie, le bestemmie risollevano il morale. 

Si annega nella sporcizia e nel pulito con le Marlboro di Sarajevo di Jergović Si annega in un amore mai nato ma perduto. Si corre per apprendere almeno un po’ cos’è l’amore prima di morire sotto le bombe. 

“[…] Bosnia. È annegata dolcemente in un mare lucente, come quelle bestemmie” (p.105)

Il romanzo dello scrittore e poeta bosniaco Milijenko Jergović è tutta dedita alla malinconia, nostalgia, a quel sehnsucht di una terra che era e non è più. 

È la lost prayer in una tempesta, in una granata che colpisce una casa, è la sorte che lega un mondo, uomini, donne e bambini, si urla e si tace nel silenzio. Si passeggia un po’ qui e un po’ là come un cerchio, si balla e si ride al diavolo.

EMILIA PIETROPAOLO

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La Redazione

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