Gaslighting, la violenza che non lascia lividi
Non tutte le botte lasciano lividi, non tutto il dolore è visibile, non tutte le cicatrici sono sulla pelle.
La violenza può essere subdola e strisciare come un serpente sottopelle, annidandosi nella psiche e riproducendosi nei pensieri.
Tra le forme di violenza di genere la più sottile e difficilmente riconoscibile è quella psicologica, che scalfisce giorno dopo giorno la donna che la subisce.
Il fenomeno del gaslighting è una forma di violenza manipolatoria messa in atto da una persona talmente abusante che la vittima arriva a dubitare della propria sanità mentale, sentendosi dipendente, confusa, sbagliata, pazza.
Questo indicibile abuso è un tipo di brainwashing (lavaggio del cervello), il cui nome deriva dal film «Gaslight» («Angoscia», 1944, regia di Cukor) in cui, con una diabolica strategia psicologica, un uomo, alterando le luci delle lampade a gas di casa, spinge sua moglie alla pazzia.
L’obiettivo del gaslighter è privare la vittima dell’autonomia personale e dell’autostima, riducendola ad una condizione di dipendenza tale da risultare indispensabile per la sua sopravvivenza.
Tutte le forme di violenza girano attorno a due cardini: potere e controllo. La vittima svalutata, umiliata e soggiogata, si fa imprigionare in un circolo perverso, rafforzando inevitabilmente il legame con il carnefice, percepito come potente, intelligente e capace di garantire la sopravvivenza, alimentando la spirale di violenza e di manipolazione.
Questo processo manipolativo si dispiega su varie fasi – l’instillazione del seme del dubbio, l’incredulità, la rabbia ed infine la depressione – ed è proprio in quest’ultima che siamo di fronte alla cronicizzazione, la perversione relazionale, l’idealizzazione del carnefice e aguzzino, l’isolamento sociale.
Il gaslighting è un attacco alla fiducia, all’indipendenza, un disconoscimento dei diritti, una corrosione dell’autostima per controllare, esercitare potere e dominio sull’altro.
L’epilogo paradossale è rappresentato dalla vittima alla mercé del suo aguzzino, riconoscendolo come unico sostegno e possibilità di sopravvivenza, rinforzando inevitabilmente il circolo vizioso della violenza.
È una perversione relazionale, una manipolazione e un abuso psicologico.
La vittima non ne è consapevole, difficilmente chiede aiuto. Sta a chi osserva queste situazioni rompere l’isolamento per poter scardinare le dinamiche violente di una relazione dolorosa, maligna, incancrenita.
Noi donne insieme siamo più forti.
Elisabetta Carbone
Illustrazione di Edoardo Iodice
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