Paradosso che son io
Dico che ho fretta, eppure non mi muovo.
Dico che ho mille cose da fare, e puntualmente me ne rimangono molte di più.
La lista che scrivo sulle note fa spazio ogni giorno a qualche punto nuovo, e non accenna a diminuire.
Si moltiplicano gli appunti, raddoppiano i pensieri, aumentano gli impegni da sbarrare e non spunto neanche più i giorni che passano. Non l’ho mai fatto.
Sono incurante del tempo che se ne va, eppure quanto curo invece quella lista, piena di ciò che dovrei fare. E che non faccio.
Le ore sono troppo poche, così ci hanno detto. Così faccio finta di credere.
E invece credo che ne basterebbero anche meno, se solo fossi in grado di sfruttarle meglio.
Tolte le ore di sonno, tolto il lavoro, rimane più di qualcosa. Rimane e passa. Passa più veloce di quanto vorrei, ma passerebbe veloce lo stesso.
Se solo fossi coerente con ciò che dico di voler fare.
Avrei tempo per i miei capricci, per qualcuno almeno, ne avrei anche la possibilità. E non sarebbero neanche capricci.
Avrei tempo da dedicare ai miei interessi, alle mie passioni, o a quello che penso siano per me.
Quante volte mi è stato detto: “Ah, sei sempre in giro. Beata te!” e quante volte l’ho pensato io degli altri, e l’ho anche detto.
Eppure per i viaggi il tempo ce lo si può ritagliare, anche se sembra non bastare mai. E per il cinema, la fotografia, le mostre, le passeggiate, le uscite con gli amici, o da soli, le cene fuori, le gite al mare, un bel libro, anche uno brutto. Per guardare il cielo, il tempo lo si trova. Per respirare.
Però nella mia lista queste cose non le trovo. E non le posso spuntare.
Allora la lista la riempio di concretezza, di serietà, di progetti per il futuro. La riempio di pressioni e aspettative, anche di banalità. Accumulo lavatrici, telefonate, scadenze.
Io la genero e lei rimane lì, immobile. Mi fissa, non cambia, si dilata. E l’artefice sono io.
Mi obbligo ad andare più veloce di me stessa, ma in realtà non mi affatico. E continuo a guardare in un’altra direzione, verso il cielo, sì, ma senza respirare.
Forse mettere ordine fa sentire meglio. Forse, invece, prima di imporsi un programma, bisognerebbe essere sicuri di poterlo rispettare. Forse tutte queste frasi rimarranno giri di parole senza significato, finché non riusciranno ad averlo per me.
Spesso diamo la colpa al mondo che ci sta intorno, alla sua frenesia, alle incombenze, all’angoscia, ai “ma ancora non lavori?”, ai “tu, invece, cosa fai?”, ai “come va all’università?”.
Ma forse queste responsabilità non le vogliamo.
Ci piace il nostro tempo e ci piace stare fermi, anche se non lo ammettiamo.
Ci piace lasciarci cullare dall’ansia di non farcela tanto che, quando ce la facciamo a raggiungere qualcosa, quasi ne sentiamo la mancanza.
E allora avanti, con il prossimo punto della lista.
Forse siamo così abituati a sentirci appesantiti che non riusciamo a goderci il presente.
Forse siamo così abituati a dover aver controllo su ogni cosa, che non riusciamo a lasciar andare nulla, neanche quello che non serve più. O che non serviva neanche prima.
Forse ci imponiamo un ritmo innaturale, coscienti di non essere in grado di seguirlo.
Forse ci fa paura il movimento, perché alla fine è così comodo lamentarsi rimanendo immobili.
Eppure quanto non ci riesce bene, nessuna delle due cose.
Stefania Malerba
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Illustrazione di Alice Gallosi