Sembra che arrivi da un altro mondo: è Adam Driver
Adam Driver è il nome per eccellenza sulla bocca di tutti: centottantanove i centimetri d’altezza, con le orecchie grandi e un faccione enorme.
Ma partiamo dal principio. Adam Douglas Driver, nasce in California, ma, dopo il divorzio dei genitori, cresce in Indiana. Si dice fin da piccolo affascinato dalla recitazione, senza particolare successo: da ragazzo canta nel coro della chiesa. Riceve, pertanto, un’educazione religiosa.
Andò meglio alle superiori, quando qualche insegnante gli consigliò di provare a entrare alla Juilliard, scuola di arti performative di New York. La Julliard, sceglieva chi accettare solo in base a colloqui e provini e non basandosi sui voti (e i suoi non erano particolarmente alti). Andò male, ancora.
«Credo che allora cercassi di piacere e basta. Non avevo opinioni sulle cose che dicevo». Ha detto a riguardo. E così, dopo quel rifiuto, Driver non si iscrisse all’università ma fece una serie di lavori non particolarmente appaganti e per cui si è detto per niente portato.
Poi arrivarono gli attentati dell’11 settembre 2001, quando Driver aveva quasi 18 anni e, ha detto di lui, stava «a casa a non fare un cazzo». Decise d’impeto di arruolarsi nei Marines, così, in fretta, considerato il più duro tra i corpi delle forze armate statunitensi.
Fece l’addestramento e dopo un paio di anni di addestramento negli Stati Uniti sarebbe dovuto partire per l’Iraq, ma in mountain bike con un amico si dislocò lo sterno e, anche per via di successive complicazioni, venne congedato. Tutti i componenti dell’unità di cui avrebbe dovuto fare parte tornarono vivi, poi, dall’Iraq.
«Mi sentivo una merda». Driver ha raccontato che fece di tutto per provare a non farsi congedare e soffrì molto per non essere partito. Così, finita la carriera militare, provò a entrare in polizia e fu rifiutato perché non ancora ventunenne. Decise quindi di fare un nuovo tentativo per entrare alla Julliard, e fu preso.
Driver ha raccontato che fu strano passare dai Marines alla Julliard e che, ormai abituato alla disciplina militare, tentò di metterla in pratica anche lì. Correndo ogni mattina un po’ meno di dieci chilometri per andare alla scuola, passando le notti a guardare i grandi classici del cinema o studiare le opere più importanti del teatro.
Nel 2009 finì gli studi alla Julliard, dove intanto aveva conosciuto Joanne Tucker, che sarebbe diventata sua moglie e madre di suo figlio, e piuttosto velocemente, da qui, iniziò la sua carriera. Fece una piccola parte in Law & Order, poi nel 2011 ebbe un piccolo ruolo in J. Edgar.
Non si trovano grandi storie o curiosi aneddoti su come, quando e perché Driver iniziò la sua carriera nel cinema. Nel 2012 recitò in Girls, nel 2014 vinse la Coppa Volpi di Venezia, il premio al migliore attore del Festival, grazie al suo ruolo in Hungry Hearts di Saverio Costanzo.
Molti dei critici, ritengono che Driver in Girls si sia fatto notare per aver dato al suo personaggio una profondità che per la sceneggiatura non avrebbe avuto. In Paterson, recita senza quasi mai parlare, e ha raccontato, che molte scene, in sceneggiatura, dicevano che la principale attività del suo personaggio era “ascoltare”.
Ma un anno prima, precisamente nel 2011, Driver era già apparso in un paio di progetti, ovvero, J. Edgar e Gayby. E ancora, all’interno del film Not Waving But Drowning. Da quel momento in poi tutto il percorso è diventato una piacevole discesa: consci del grande talento e personalità dell’attore, Hollywood ha iniziato a coinvolgere Driver in diverse produzioni, dandogli sempre ruoli maggiori fino ad arrivare a grandi parti da protagonista.
È la storia di una faccia che merita il successo. Senza mai perdere la credibilità. Da Marriage Story all’ultimo Star Wars, da Silence a Rumore bianco, e ancora, da House of Gucci a Ferrari. È la storia di una faccia atipica, tanto lontana da quei canoni della nuova Hollywood. È la sua faccia, ed è arrivata con il tempo di chi sa aspettare.
Si capisce come essere un vincente non gli interessi. La sua bellezza sta nel raccontarci qualcosa di sé, svelandosi in movenze, gesti e suoni, che appartengono a un volto e a un corpo unici. E in effetti, come se non bastasse, questo ragazzone, compresa l’intensa e importante filmografia, ci ricorda proprio quello che è, per passione, il mestiere dell’attore.
Devozione pura. Fuori formato. Come quel sentimento interiore che muove le sue azioni. Senza mezzi termini. Come quel perentorio “vaffa”. Liberatorio, insomma.
“Fuck you, I don’t know?” Se si può dire.
Francesca Scotto di Carlo
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Illustrazione di Francesca Scotto Di Carlo