Colonie israeliane: dove, come e perché
Negli anni, la creazione di insediamenti israeliani ha portato alla cacciata di molti arabi palestinesi dalle proprie case ed ha impedito il raggiungimento di un accordo tra i popoli per la spartizione delle terre. Oggi scopriamo perché.
Israele ha da pochissimi giorni approvato la costruzione di 3.400 nuove abitazioni nelle colonie in Cisgiordania, rinforzando ulteriormente e per l’ennesima volta la presenza su un territorio che, secondo accordi internazionali, avrebbe dovuto divenire lo Stato palestinese.
Per capire come Israele sia giunto a colonizzare e occupare buona parte del territorio palestinese è necessario tornare un po’ indietro negli anni.
Tutto ha inizio (se di inizio per un conflitto che dura da secoli si può parlare) dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967: l’Israele si scontra con la Lega araba (Egitto, Siria e Giordania), giunta in aiuto delle popolazioni palestinesi, riuscendo a occupare il deserto del Sinai, le alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Sui territori occupati comincia la creazione di piccole “enclavi” israeliane nelle quali si incentiva il trasferimento e l’insediamento con motivazioni religiose e ideologiche ma anche economiche, garantendo una vita agiata a poco prezzo.
La Palestina dichiara l’indipendenza nel 1988 e circa 100 stati dell’ONU ne riconoscono l’esistenza.
Nel 1993 lo Stato Ebraico percepisce la necessità di trovare un accordo con la Palestina, decidendo di firmare gli accordi di Oslo. Gli accordi avrebbero previsto la creazione di un Associazione Nazionale Palestinese, una sorta di braccio operativo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) cui cedere gradualmente i territori abitati dai palestinesi. Altre zone del territorio avrebbero invece visto il controllo congiunto di Israele e ANP.
Nonostante quanto stabilito, la costruzione di nuove colonie, soprattutto in Cisgiordania, non viene mai bloccata dai governi israeliani. Da tempo infatti si ripete lo stesso schema: le colonie illegittime proliferano e lo Stato lascia correre, sino a quando gli insediamenti sono talmente ben radicati sul territorio da vedersi “costretto a legittimarne l’esistenza”. Questo di conseguenza impedisce di attuare a tutti gli effetti gli accordi di Oslo (quindi la costruzione dello stato Palestinese).
Gli insediamenti israeliani, inizialmente riconosciuti dal suddetto stato, sono stati dichiarati illegali dalla stessa ONU, che li ha recentemente definiti un crimine di guerra.
Essi rappresentano inoltre una violazione del diritto internazionale: L’articolo 49 comma 6 della quarta Convenzione di Ginevra, ratificata da Israele, sancisce che “la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato”.
Nel 2019 Trump aveva riconosciuto legalmente le colonie ma recentemente Antony Blinken le ha definite una violazione del diritto internazionale.
Questa volta la creazione di nuove abitazioni sarebbe stata presentata da Israele come conseguenza dei fatti di febbraio 2024.
Alcuni palestinesi avrebbero infatti attaccato civili israeliani al confine tra Gerusalemme e Cisgiordania. Nella stessa giornata e nelle zone interessate dall’attacco lo Stato Israeliano annuncia la creazione di nuovi insediamenti, definendo ciò “una risposta sionista appropriata”, con l’espediente della protezione delle colonie dagli attacchi palestinesi.
Sembra tuttavia poco probabile che un piano organizzato e complesso, come la creazione di nuove unità abitative, possa definirsi in poche ore di distanza da un attacco armato. Si potrebbe invece pensare che l’attacco sia stato semplicemente utilizzato come mezzo per giustificare agli occhi occidentali l’accanirsi su una popolazione già ridotta allo stremo.
Ad oggi sono più di 100 gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, per un totale di 450mila coloni, cui si sommano i 220mila di Gerusalemme est.
Inoltre il numero di unità abitative destinate ad insediamenti dal 2022 al 2023 è cresciuto considerevolmente, passando da 4.427 a 13.082 (dati EEAS).
Nel mentre, i palestinesi restano la seconda popolazione di rifugiati più grande al mondo, con quasi 6 milioni di palestinesi dislocati in tutta la regione, di cui molti in campi profughi.
Nonostante questa situazione perduri dal 1948-49, con l’inizio della Nakbah e l’esodo forzato di 700mila arabi palestinesi, solo la Giordania li ha pienamente integrati quali cittadini aventi diritto.
Sofia Seghesio
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