Il lusso di fare schifo
Fino a poco tempo fa non mi sono mai concessa il lusso di fare schifo. Sì, avete letto bene, il lusso: sempre impegnata ad essere impegnata, sempre occupata a essere occupata, sempre preoccupata di essere brava in ogni cosa.
Ma ho imparato che tutto quel tempo che ho speso cercando di essere la più brava in qualcosa, avrei potuto passarlo a fare schifo.
Ma questo ragionamento da dove arriva?
Dai social. Perché ho passato gli ultimi anni (come chiunque mi stia leggendo) a scrollare TikTok o Instagram, popolati da contenuti e creator che idealizzano e romanticizzano la vita, come se fossimo protagonisti di un film. Sembra che se non lo fai, se non trovi il lato estetico nel quotidiano, la vita ti scivola tra le dita. Una vita inutile.
Parliamo di quei video in cui gli influencer mangiano pane appena sfornato, accompagnato con verdure dell’orto verticale sul balcone vista lago, che lavorano da casa e che riescono a dedicare un paio d’ore la mattina per fare sport, con l’illusione che il benessere mentale e fisico possano dipendere da maschere in tessuto, acqua e limone, addominali scolpiti e acido ialuronico.
Il problema è che oggi si romanticizza tutto: il lavoro, le pulizie domestiche, i disegnini sulle unghie, la cura di sé, stirare, accendere le candele mentre si fa la doccia, preparare la cena. Ma semplicemente, non funziona. Romanticizzare il non-romantico non è la verità.
E così ho preso coraggio e ho riscoperto il mio tempo libero, inteso come tempo vuoto, improduttivo, in cui posso permettermi il lusso di fare schifo. Posso marcire a letto mezza giornata, guardare la TV con addosso una felpa logora, posso mangiare una vaschetta di gelato sul divano, posso non pettinarmi e non truccarmi. Posso fare colazione con gli avanzi della cena e così deromanticizzare il pasto più importante della giornata.
La verità è che non mi alzerò mai alle 5 del mattino per bere estratti di cavolo nero e organizzare l’agenda con i post-it colorati. Non passerò i miei pomeriggi impomatandomi la faccia, non passerò la mia pausa pranzo in palestra, non voglio essere un ingranaggio del capitalismo. Io voglio il sacrosanto diritto di perdere tempo. Perché è il mio tempo.
Perché aspirare alla produttività, aspirare alla perfezione, vuol dire aspirare al controllo. Soprattutto nella cura del sé. La controtendenza è la voglia di essere pigri, oziosi, indolenti, fieramente schifosi. Di essere, in fin della fiera, sé stessi, con quell’irriverente piacere di impresentabilità in un mondo dominato dalla bellezza esteriore. Essere senza artificio.
Storcete il naso? È colpa del capitalismo.
Sì, perché siamo cresciuti con l’idea folle che o sei un membro attivo e produttivo della società oppure non sei nessuno. Se non produci, se ti riposi, sei un fallimento sociale. Puoi dormire, ma solo otto ore a notte, senza sonnellini pomeridiani; puoi prenderti cura di te, ma solo perché investi nell’economia; puoi fare attività fisica, ma solo per essere un ingranaggio del sistema capitalistico, puoi avere un hobby, ma deve essere come un secondo lavoro.
Il riposo, il tempo vuoto, è negletto nella società capitalistica. O produci, o muori.
Lasciarsi andare non è una soluzione rivoluzionaria al capitalismo. Abbandonare le skincare coreane non vuol dire prendere in mano falce e martello, alzare i forconi, distruggere il sistema. La goblin mode, essere impresentabili, non è un atto sovversivo, ma è una delle tante possibilità d’amore verso sé stessi.
Elisabetta Carbone
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