L’8 marzo lotto anch’io: perché aderire allo sciopero transfemminista
Non regalateci mimose, non le vogliamo. Vogliamo diritti, parità e dignità.
Scioperare l’otto marzo significa avere il coraggio di urlare al mondo la volontà di trasformare la (ri)produzione dei luoghi dove la violenza patriarcale esercita il suo potere ogni giorno: nelle scuole, nelle case, nei posti di lavoro, nelle università, nelle vie e nelle piazze, nei luoghi dove regna il consumismo e il capitalismo, ovunque ci sia una traccia di società verticistica e fallocratica.
Scioperare l’otto marzo significa dire basta all’irrigidimento dei sistemi punitivi che leggono il fenomeno della violenza contro le donne e del femminicidio come un problema di sicurezza e non di educazione. Politiche che generano una serie di sterili comunicati che propongono un approccio emergenziale, senza scardinare i meccanismi machisti alla base del controllo sul corpo delle donne.
Scioperare l’otto marzo significa chiedere maggiori servizi a tutela delle donne, la riapertura dei consultori pubblici e di smetterla di sgomberare le strutture autogestite, nella costante precarietà abitativa e nell’eccesso di sovraccarico del lavoro di cura gratuito che pesa solo sulle spalle delle donne.
Una donna su cinque è costretta a lasciare il lavoro dopo il primo figlio, non riuscendo a conciliare i ritmi familiari con quelli lavorativi, le famiglie omogenitoriali vengono discriminate, ma ci viene chiesto di fare figli bianchi e italici per la patria. Patria che si è dimenticata delle donne, etero, lesbiche, trans, bisessuali, queer, migranti, disabili, sexworkers, detenute. Donne etichettate, classificate, ignorate.
Scioperiamo anche contro la guerra, estrema espressione di violenza fallocratica e patriarcale, che impone politiche belliche pervasive e che estremizza ideologie nazionaliste e militariste, proclami di ordine e di disciplina, che esacerbano le gerarchie di genere, che ammutoliscono e denigrano le nostre lotte.
Non siamo più una priorità. Le donne possono aspettare.
Quanto vale la nostra vita? Pochi mesi o anni di galera? Una sanzione? Un braccialetto elettronico? Quanto vale la vita di una figlia, di una compagna, di una madre, di un’amica? Vale un codice rosso? Vale un pinkwashing?
Se si fermano le donne, si ferma il mondo. Si fermano le case, le fabbriche, gli ospedali, i centri commerciali, gli studi medici, le scuole, le università, i call center, le mense, le lavanderie, il governo.
Non regalateci mimose, non le vogliamo. Vogliamo diritti, parità e dignità.
Elisabetta Carbone
Leggi anche: Femminismo interrotto, la realtà interpretata in chiave femminista