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A regola d’arte: intervista allo chef

Ho fatto quest’intervista mentre lo chef Matteo Messa, classe 1976, uomo alto e longilineo, stava armeggiando ricurvo sui fornelli nel preparami la cena, nella mia cucina sguarnita e col frigo abitato da alimenti perlopiù scaduti.

Siamo colleghi, entrambi professori in una scuola professionale, io dietro la cattedra di italiano e comunicazione, lui dietro i fornelli del suo laboratorio (o officina, come ama chiamarlo lui). 

Ci siamo conosciuti lì ed è stato investito dal duro compito di insegnarmi a mangiare e non solo a nutrirmi. Lo fa con pazienza, destrezza, ironia e passione, qualità umane e professionali che vedo ogni giorno, sia sul lavoro che nella nostra neonata vita privata. Con timidezza risponde alle mie domande, ma ride spesso: d’altronde lui è fatto così, concentrato ma sorridente, con una risata sguaiata e incontrollata. 

Se dovessi descriverti con un solo aggettivo, quale sceglieresti? 

«Testardo.»

E se dovessi descrivere il tuo modo di fare cucina con tre aggettivi?

«Conservatore, tradizionale, rispettoso.»

Come nasce la passione per la cucina? È sempre stato il tuo sogno fin da piccolo?
«Sin da piccolo osservavo con curiosità i miei nonni che allevavano gli animali e coltivavano le verdure nell’orto, che poi ovviamente cucinavano. E io sognavo già da bambino di avere un mio ristorante, un agriturismo, perché essendo cresciuto in campagna ero circondato da quell’atmosfera… La passione per la cucina non ha mai vacillato, ho sempre voluto fare questo.»

Come si diventa chef? 

«Per diventare chef sono indispensabili una serie di qualità personali. Prima di tutto ci vuole tantissima passione, ma anche spirito di sacrificio, entusiasmo, forza di volontà, voglia di imparare, di mettersi in gioco e tanta serietà. Lo chef è il responsabile della cucina, è una sorta di “capo reparto”: non esiste una scuola vera e propria, ci vuole l’esperienza che consente di saperti muovere in cucina, gestire gli ordini, il personale, lavorare le materie prime, conoscere i procedimenti, gli ingredienti, le attrezzature e… sopportare i camerieri (ma scrivi anche questo? – ride –).»

Secondo te, il genere influenza la carriera in cucina? Perché ci sono poche donne chef? 

«Ho conosciuto qualche donna che è riuscita a fare carriera nel mio settore, e ti dico che sono anche più brave degli uomini. Secondo me sono poche per il fatto che è un lavoro che sacrifica tanto la famiglia e la vita privata. Anche fisicamente è tosto, sia come orari che come vero e proprio sforzo fisico… – pensa, si ferma e si accende una sigaretta –.  Forse è un lavoro da uomo, un po’ come il muratore. Sì, ti capita qualche donna, però quando stai in piedi 12-15 ore al giorno non hai tempo per la famiglia, la devi sacrificare. Per questo le cuoche trovano impiego nei posti dove il lavoro è più leggero, come le mense part-time o ristoranti con un monte ore ridotto.» 

Qual è la tua filosofia in cucina?

«Bella domanda. Trasmettere al mio staff la mia passione, le mie esperienze e le mie conoscenze. È la mia passione, voglio dire… non saprei fare altro, sinceramente. Non è facile da spiegare a chi non è del mestiere, è una cosa che senti dentro, è un amore. La cucina è amore: se non ci metti amore in quello che fai, te ne accorgi dal risultato. Se lavori senza amore, puoi anche seguire una ricetta che fai da 30 anni ma non ti viene bene come quando ci metti amore, anche se sai a memoria gli ingredienti, il procedimento…. ma se non ci metti l’amore… senza amore no, non ti viene buono.»

L’aspetto più difficile del tuo lavoro e il più appagante?

«Eh… – sospira –. È difficile star dietro alle smisurate ore di lavoro in piedi, ai clienti esigenti, allo stress, ai pasti consumati al volo in piedi. Quando tutti festeggiano tu lavori, devi saper sacrificare le uscite con gli amici e le vacanze. Manca la condivisione di alcuni momenti con le persone che ami. Però è bello quando ricevi dei complimenti sinceri, soprattutto dai clienti, alcuni dei quali mi seguono da più di 20 anni. È una grande soddisfazione avere uno staff creato da te che ti segue bene, che ti rispetta, dove ti trovi bene, una squadra vincente.»

Sei d’accordo con chi pensa che la cucina sia un’arte? 

«Sì, alla fine è una forma artistica perché esprimi la tua creatività e ti permette di concretizzare tutta la tua fantasia.»

Cos’è la creatività per te? Cosa significa essere creativi oggi?
«Significa creare qualcosa di nuovo e che sia al passo coi tempi. Oggi la vista è il senso più importante, al centro del lavoro viene messa l’estetica: c’è un enorme business dietro l’immagine e la presentazione dei piatti. La creatività la esprimo anche con delle rivisitazioni di ricette tradizionali in chiave moderna, oppure trasformando i piatti tradizionali in finger food o street food. Sono dei settori molto interessanti.»

A proposito di questo… Slow food vs fast food: cosa ne pensi?
«Col fast food si è persa la tradizione della tavola e del piacere di stare a tavola insieme. Però la ristorazione deve adeguarsi: se il fast food è di tendenza, allora bisogna lavorare per dare un prodotto di qualità anche in questo settore. Oggi la classica trattoria con i “piatti della nonna” sta andando a perdersi, mentre lavorano molto i ristoranti stellati, i fast food e gli all you can eat. A questa formula sono contrario perché la qualità non esiste, vengono servite materie prime scadenti.»

Come si fa a gestire il rapporto col pubblico? È cambiato?
«Sì, è molto più esigente perché ci sono tante trasmissioni televisive e canali social dedicati, quindi la gente si è fatta una cultura sul nostro lavoro e tanti si dilettano a casa per passione. La realtà è che conoscono le ricette e gli ingredienti, ma non la gestione di un’attività ristorativa. Ad ogni modo, oggi sembra che la clientela sia più appassionata di cucina di una volta.»

Oltre ad essere uno chef, sei anche un docente di cucina…
«Sì, ho sempre voluto insegnare perché sono stato affascinato dal mio insegnante di cucina delle scuole superiori e pensavo che un domani avrei voluto farlo anch’io. Quando mi si è presentata l’occasione ho deciso di accettare. L’insegnamento mi permette anche qualche serata libera che dopo 30 anni in cucina non è male – ride –.»

Quali valori trasmetti ai tuoi allievi?
«Io cerco di dar loro le basi del “saper fare”, in modo che quando inizieranno a lavorare abbiano una bella infarinatura generale. La tecnica invece si impara lavorando e sperimentando nel corso del tempo. Insisto molto su una serie di valori personali come la serietà, l’educazione, l’essere volenterosi, avere un atteggiamento propositivo verso il lavoro e una giusta quota di entusiasmo.»

Quanto è importante la cultura e la formazione dietro i fornelli?
«Cucinare si impara facendolo, ma è necessaria la conoscenza di alcuni aspetti specifici. Ad esempio, la cucina è anche (e soprattutto) chimica, per cui è improntate conoscere le reazioni chimiche dei composti organici per la buona riuscita del piatto. Anche la conoscenza delle lingue è importante: prima di tutto per fare esperienze all’estero, in secondo luogo perché la terminologia è quasi tutta francese. Oggi, poi, con il concetto di cucina fusion, è importante conoscere le lingue ancora di più.»

Cosa diresti a un giovane che vuole intraprendere la tua carriera? Hai un consiglio per i cuochi in erba?
«Armati di forza di volontà e mettiti in testa che quando gli altri festeggiano tu lavorerai. Senz’altro devi avere la passione, perché senza quella non duri tanto. E trovati un bravo osteopata – ride –. Tanti nel mio settore fanno uso di stupefacenti eccitanti per reggere i ritmi massacranti: il mio consiglio è quello di non farsi influenzare o coinvolgere in queste cose, di starne alla larga.»

Il segreto per un piatto ben riuscito?
«Metterci tanto amore, rispettare gli ingredienti, le cotture e le proprietà nutrizionali.»

Elisabetta Carbone

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Elisabetta Carbone

Sono Elisabetta Carbone, classe ’93, milanese di nascita ma cittadina del mondo. Mi sono diplomata al conservatorio per scoprire che volevo laurearmi in storia. Mi sono laureata in storia per scoprire che volevo laurearmi in psicologia. Dopodiché ho scoperto la sessuologia, ma questa è tutta un’altra storia. Non faccio un passo senza Teo al mio fianco, la mia anima gemella a 4 zampe. Docente, ambientalista, riciclatrice seriale, vegetariana.
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