Caster Semenya contro l’iperandrogenismo e le discriminazioni
Due volte campionessa olimpionica degli 800 metri piani, tre volte campionessa mondiale della stessa specialità. Una mezzofondista e velocista di tutto rispetto, che ha iniziato la sua carriera nell’atletica nel 2008.
Caster Semenya ha iniziato ad avere una carriera sportiva ricca di soddisfazioni già dal 2008, quando ancora era una juniores, vincendo i Giochi giovanili del Commonwealth negli 800 metri mentre l’anno dopo vinse nella stessa distanza ai Campionati africani juniores, oltre ai 1500 metri.
Nel 2009 stabilì il nuovo record nazionale sudafricano, oltre ad aver effettuato la migliore prestazione mondiale stagionale, negli 800 metri ai Campionati mondiali con il tempo di 1’55’’45.
Poi il primo oro olimpico a Londra 2012, ai quali fu portabandiera per il Sudafrica alla cerimonia di apertura, nella stessa disciplina; il secondo oro olimpico nel 2016 a Rio de Janeiro.
Sono solo alcuni dei successi della trentatreenne di Polokwane, città del Sudafrica nordorientale, ma in questi anni di attività nel mondo dello sport non le sono mancate le difficoltà.
Semenya soffre di iperandrogenismo, uno squilibrio ormonale che determina un’eccessiva produzione di ormoni maschile – in particolar modo di testosterone – da parte dell’ovaio e del surrene, entrambi ghiandole che producono ormoni.
Per questo motivo, e anche perché vi erano delle voci di corridoio che mettevano in dubbio il suo sesso, venne sottoposta, al termine dei mondiali 2009, ad un test del sesso richiesto dalla IAAF – International Association of Athletics Federations, attualmente nota come World Athletics. I risultati dei test non vennero resi noti, per tutelare la privacy dell’atleta, e per un periodo non gareggiò.
Nel luglio del 2010, a seguito delle conclusioni di un’apposita commissione di esperti medici, la IAAF stabilisce che Semenya potrà ritornare a gareggiare con effetto immediato.
Purtroppo, la sua disavventura a riguardo non termina lì.
La federazione mondiale di atletica le impose che, per poter continuare a gareggiare, doveva sottoporsi ad una riduzione farmacologica del livello di testosterone presente nel sangue – dal momento in cui lei aveva una dose tre volte maggiore rispetto ai livelli medi di una donna.
Quindi, iniziò a prendere contraccettivi ormonali che, in base alla sua testimonianza rilasciata al Guardian, disse che la facevano sentire “come uno zombie”, con problemi fisici (e non solo) quali bruciori di stomaco e attacchi di panico. Una situazione molto stressante per chiunque, soprattutto quando compromette di svolgere attività quotidiane e le proprie passioni.
Nel 2015 sospese la pillola, stesso anno in cui la Corte arbitrale per lo sport decise di sospendere per due anni i limiti al testosterone, così che ritornò a gareggiare per poter partecipare alle Olimpiadi di Rio 2016.
Ma ecco che nel 2018 la World Athletics ritorna in carica con delle nuove regole, che richiedevano alle atlete iperandrogine di ridurre i propri livelli di testosterone sotto i 5 nanomoli per litro così da poter gareggiare nelle competizioni femminili dai 400 metri a 1 miglio.
Ma Semenya non ci sta: preferisce rifiutare i trattamenti mettendo in standby la propria carriera sportiva, iniziando una battaglia legale che è arrivata fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
In un articolo al Reuters, rilasciato ad ottobre 2023, spiega come le limitazioni ormonali rappresentino un “problema raziale: non esistono persone bianche che siano influenzate da queste regole. Riguardano soltanto le donne nere, africane e asiatiche. Quindi bisogna chiedersi: sono nel miglior interesse dello sport femminile o soltanto di certe donne?”
La World Athletics ha negato qualunque discriminazione, affermando che il loro unico interesse è quello di proteggere la categoria femminile così che le donne e le ragazze continuino a scegliere di praticare sport, oltre al fatto che continua a sostenere che l’iperandrogenismo rappresenti un vantaggio competitivo ingiusto nei confronti delle altre atlete.
Allora Semenya decide di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che con una maggioranza di 4 contro 3, ha definito “discriminatoria e irrispettosa dei diritti della privacy” l’esclusione dell’atleta dalle competizioni sulla base “delle differenze di sviluppo sessuale” di cui è portatrice.
Basandoci sulla dichiarazione della Corte, Semenya ha diritto ad un risarcimento e che le discriminazioni verso le atlete come lei vanno necessariamente eliminata.
Irene Ippolito
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